La mappa del quotidiano - Scritti nelle bottiglie - Testo critico di Marzio Dall’Acqua C’è una certa dolcezza, nonostante il tanto tempo trascorso e l’asperità degli anni, nel sapere delle nostre vite parallele, che ogni tanto si incontrano, scambiano

La mappa del quotidiano

Scritti nelle bottiglie

Testo critico di Marzio Dall’Acqua

 

                C’è una certa dolcezza, nonostante il tanto tempo trascorso e l’asperità degli anni, nel sapere delle nostre vite parallele, che ogni tanto si incontrano, scambiano e cercano: intendo quella di Annamaria Dadomo e la mia. Ci conosciamo dai primissimi anni del ’70, quando ci azzuffammo, al primo incontro su D’Annunzio. Di fronte avevo una ragazza vestita come una hippie, dai capelli cortissimi, alla maschio, con una pelle che odorava di sole e d’aria, di un carattere dolce e selvaggio, che abbracciava, come se lo dovesse difendere con tutta se stessa un libro di poesie di D’Annunzio - l’”Alcyone”, mi pare, il terzo libro delle “Laudi” - che io, sulla scia degli umori del tempo, irridevo e scanzonato schernivo. Conobbi subito il suo chiudersi a riccio, ferita ed insieme aggressiva pronta a rispondere, con i grandi occhi da cerbiatta spalancati e sofferenti, ma anche pronti a fuggire e rintanarsi in un suo mondo. Con il tempo avrei capito che non solo o non tanto il poeta abruzzese difendeva, ma il suo diritto alla poesia, la sua vocazione alla scrittura, la sua passione intima e, allora ancora segreta, alla ricerca letteraria. Amava frugare nelle e tra le parole, come sua madre sarta cercava nella riserva degli scampoli, dei bottoni dei nastri, quello che la sua fantasia ed il suo umore ricercava e lo teneva in serbo per tempi migliori, per futuri usi che era certa sarebbero venuti. Questo tesoretto lo veniva arricchendo, ogni momento con le letture appassionate ed assidue dei giornali e dei libri. Ritagliava passi e frasi, che degustava lentamente, godendone l’intenso sapore d’anima e lo scorrere incisivo dello scritto che non era mai definitorio, ma evocativo, incantatorio: un grimaldello fatto di lettere o di parole per schiudere l’accesso ad un mondo intimo, ad una possibilità di espressione che si sentiva propria, ma non sempre si riusciva ad esprimere. Le tempeste, le bufere della giovinezza si mescolavano con gli incontri, gli amori e questa voce poetica che veniva, non senza dolori e turbamenti, prendendo forza, vigore, che emergeva dal magma del dolore e della sofferenza, della solitudine e dell’incanto. Annamaria infatti non ha mai cessato di adorare la vita, di amare la natura, di trovare intorno a sé frammenti di bellezza che sembrano schegge di vetro, ma bastano a rompere l’accavallassi delle scure nubi delle difficoltà del vivere. Anche esasperare i sentimenti serviva per cercare una strada d’uscita non dal peso dell’esistere, ma per entrare nello spazio della letteratura, della scrittura: vivere e guardarsi vivere per raccontarsi. Annamaria ha sempre vissuto, sull’esempio del padre che amava l’arte e la lettura, in una voluta essenzialità esistenziale, quasi la povertà materiale intorno a lei permettesse maggior ricchezza spirituale, per cui non caso si è anche accostata alle dottrine zen e al mondo giapponese, che serviva quasi a mimetizzare il suo più intimo e prezioso tesoro: la possibilità di scrivere, di fare poesia, di raccontare. E questa sua scrittura è stata così radicata e radicale che è mutata nel tempo, che è venuta adattandosi a diverse aspirazioni, a diverse esigenze, come se la sua voce fosse la fiamma di una candela che vibra con il fluttuare dell’aria, in un eccedere tra erotismo, sensualità, eccitazione per alterità, come una sacralità sfiorata più che vissuta  ed una follia latente quasi un incantamento del cuore più che della ragione. E lo spazio avventuroso è stato anche quello, ancor più mitico/mistico del proprio corpo, del sangue, dei sensi esasperati a chiedere voce, l’anoressia esperita e poi scritta - più che descritta - in “Regressione” del 1990 (Rebellato, edizioni). “Scritta” perché diventata letteratura, alta letteratura, anche se vissuta, come le “sistole e le diastole” di Attilio Bertolucci. Ci sono gli anni di Fontanellato, con le chiavi del castello dei Sanvitale, il colloquio intimo ed eterno con il Parmigianino della saletta di Diana e Atteone rifugio per sfuggire all’insulto del quotidiano, alla meschina opacità dell’”onta del giorno”. La scrittura dunque come volo, liberazione, fantasia che si viene staccando da quel nocciolo di realtà da cui Annamaria sempre parte. Uno sguardo od un evento per confondere tutto: sensazioni, ricordi, episodi antichi e recenti in un rigore che è padronanza della scrittura, controllo delle frasi e ricchezza delle parole. Mentre le sue immagini sono realistiche esiste una generale atemporalità che è come l’atmosfera in cui i suoi racconti si immergono. Anche riscrittura quando occorre, fino alle distillazioni di varianti sempre più limate, arrotate, lisciate e rese preziose come diamanti lavorati, che mantengono però la durezza di raccontare con crudezza e sincerità al limite dell’eccesso e dell’aggressione un vissuto che si muove tra passioni e frustrazioni. L’ansia di libertà nelle contraddizioni del vivere crea spazi che diventano sempre più trappole claustrofobiche. Ma con il tempo, con lo scorrere dei giorni, è la natura che diventa il regno di una avventura che ha le stesse tensioni del mondo erotico d’un tempo, ma più quiete, meno urgenti, meno laceranti, in uno spazio ancora chiuso, un hortus conclusus che è il giardino della villa nelle cui vicinanze vive, ai margini della città, assediato da un urbanesimo sfrenato e volgare, ma anche per questo “dimenticato” e sorpassato nel suo nascondiglio di albero e fronde, di cespugli e spazi verdi che inselvatichiscono solitari come la villa invecchia sempre più vuota, silenziosa e ripiegata su se stessa. Un’isola,ormai nella città dei rumori, del traffico, dell’eccitazione, un’isola nella quale la vita altra si è venuta rifugiando mescolando tutti i tempi dell’esistenza: dalla giovinezza, alla maturità, a questi anni lievi. Un’isola, ma anche una zattera, che naviga in mari reali e fantastici. E questi racconti, come i suoi collages sono gli scritti nelle bottiglie che Annamaria Dadomo ha lanciato in questo decennio e che le edizioni annuali di ALI hanno raccolto liete di preservarli e farli sopravvivere.

 

 maggio 2022, Marzio Dall’Acqua, critico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Postfazione di Carol Morganti a Il profumo di ieri

Postfazione di Carol Morganti

 

Nei romanzi e nei racconti di Anna Maria Dadomo non vi è confine fra panismo, anelito divino e narrazione, perché il suo sguardo contempla dimensioni che non appartengono alla norma, al pensiero comune. Dove c’è apertura e scoperta, si svela l’infinito, dove gli occhi colgono i doni che il mondo-natura dischiude, si affaccia quell’oltre in cui le inquietudini si placano e l’animo trova finalmente la sua pace. È difficile, oggi, imbattersi in una narrazione vitale e sorprendente, capace di raggiungere il proscenio dell’inconscio e ascendere agli spazi dell’anima, dove il racconto diventa lirica e si fa rivelazione. È questa la prosa di Anna Dadomo, sempre intensa, ritmica, ma anche graffiante e corrosiva.

Guido Conti definisce la scrittrice «l’anti Tamaro», perché nella sua narrativa non vi sono stereotipi, non vi sono sentimentalismi, non vi è nulla che rimandi alle «convenzioni tipicamente femminili» (1). Ciò è palese fin dalla sua prima prova, Regressione (Rebellato editore), del 1990: un romanzo-diario dal linguaggio duro, quasi osceno, che scandaglia l’esperienza estrema dell’anoressia (2). La morte-regressione, l’ascesa «nelle profondità e nel buio» è il punto di approdo di un percorso fisico e mentale che, solo nel finale del testo, appare come non definitivo, lasciando intravedere una possibile «rinascita» attraverso «la ricerca dell’assoluto e del divino».

Nelle opere successive, l’autrice sembra riversare l’anelito al divino e all’assoluto nel contesto della vita ordinaria, nelle semplici azioni quotidiane dei suoi protagonisti, quasi sempre donne. Mutazione che diviene manifesta a partire dal 2006. Se infatti nei racconti Il fiore malato e Alveare di voci (a Virginia Woolf), del 2005, le protagoniste portano ancora i segni di un dolore interiore che le consuma, di una malattia dell’animo che mina inesorabilmente la loro esistenza; negli anni a seguire, fino al 2016, nelle pagine della Dadomo prende corpo una nuova immagine femminile, intrappolata in una quotidianità annichilente e senza apparente via d'uscita. Ne costituiscono alcuni dei motivi ricorrenti la costrizione imposta dal ruolo di moglie, gli affetti non ricambiati, le aspettative deluse, il peso frustrante e ripetitivo delle incombenze domestiche. Le donne in questi racconti non appaiono tuttavia inermi o rinunciatarie, ma si mostrano talvolta capaci di sfuggire alla morsa della solitudine, dell’isolamento e dell’incomunicabilità, attingendo a risorse interiori che consentono loro di uscire dal silenzio che le isola, di «ritrovare la parola». In Il pranzo della domenica, del luglio 2007, la protagonista reagisce all’indifferenza dei familiari, sognando di raggiungere il mare per compiere una sorta di «rituale salvifico» che le avrebbe consentito di riconciliarsi con la vita. 

Sognava di partire per il mare. Ne aveva un desiderio irresistibile, quasi doloroso. Ne vedeva l’immensità, il colore, ne sentiva l’odore. Coricata sulla spiaggia di fronte a quella distesa sempre mutevole eppure sempre uguale solcata dalle barche a vela, dalle navi, dai grossi pescherecci, avrebbe visto l’orizzonte fondersi con il cielo, le onde arrivare docili e spumeggianti, avrebbe toccato la sabbia, l’avrebbe fatta scorrere tra le dita, avrebbe raccolto conchiglie passeggiando sulla battigia. Gesti banali che il suo desiderio rivestiva di un amore vero e nascosto e che assumevano, in quei momenti di dolorosa solitudine, la sacralità di un rituale salvifico. E la voce del mare, anche se immaginata, riusciva a penetrare il suo silenzio, a ristabilire un rapporto, a restituirle paradossalmente la parola (3).

Il mare, con un’analoga funzione rigenerante per la protagonista, appare anche in Ipotesi mute di una casalinga, del novembre 2009, associato ancora una volta al mondo dei desideri chimerici:

come una tiepida corrente marina, i sogni l’avrebbero cullata e portata lontano, chissà dove, per restituirla l’indomani a se stessa di nuovo integra.

Le storie della Dadomo sono colme di eventi minimi che si illuminano di significati imprevedibili e mai scontati, in una narrazione sempre avvincente che penetra entro le pieghe segrete delle cose.

La protagonista del racconto La cattura di uno sciame, del giugno 2014, è un’apicoltrice. Impegnata nell’operazione non priva di rischi di trasmigrare un alveare, ha una rivelazione, che le apre, inaspettata, la visione di un “oltre”:

L’arnia apparve nelle sue mani fosforescente come corpo celeste partecipe  [] dello splendore di lontane costellazioni.

Il divino che si manifesta all’improvviso nella natura è un tema centrale per la Dadomo, nelle opere in prosa come nella produzione poetica (4).

Lode all’aspidistra dei sepolcri, racconto dell’aprile 2014, manifesta, ad esempio, l’importanza cui assurge la natura nel mondo poetico dell’autrice, andando a delineare la figura di una donna che, come la pianta dell’aspidistra, ama sostare vicino alle tombe e nei pressi dei vasi posti nelle chiese presso l’immagine del Cristo morto, decisa ad apprendere dal vegetale la «costanza a durare, soli, per anni».

Ma è la rivelazione di un “oltre” nel quotidiano a rappresentare sovente, in queste narrazioni, la chiave per sfuggire la solitudine e riconciliarsi con la propria interiorità, come nel brano dal titolo emblematico Dormire vicino al cielo, del marzo 2014:

Quel cielo così suo sarebbe stato come una benedizione. Un viatico. Quello che le serviva per acquietarsi, rappacificarsi con se stessa, e affrontare la notte.

Per la protagonista di un racconto ambiguo e dai tratti visionari quale Signore, fammi uscire di qui (ottobre 2010), invece, la fuga dalle costrizioni dell’esistenza sembrerebbe irrealizzabile:

Fammi uscire, pregò guardando verso l’altare. Signore, fammi uscire di qui. Soffoco. [...] Si girò di nuovo verso il fondo della chiesa aspettandosi quasi che l’intensità del suo stesso desiderio, irresistibile, potesse spalancare il portale, afferrarla, portarla in salvo. No. Era buio laggiù. E chiuso. Non ce l’avrebbe fatta a mettersi in salvo. Si afflosciò sul banco, rassegnata. Lo sapeva, non appena la cerimonia fosse terminata, il portale di nuovo spalancato, la luce, quella luce calda viva trionfante che era stata esclusa e che sentiva premere sulla facciata e sui muri della chiesa, sarebbe entrata come un fiume di fuoco e li avrebbe travolti, inceneriti. Tutti. Lei compresa. 

Nei testi di Anna Dadomo si riconosce sovente una perspicace attitudine a riflettere sui meccanismi interni alla creazione artistica. Il racconto I neuroni specchio e la Lillina, del gennaio 2014, ad esempio, sembra suggerire, sulla scorta della scoperta neuro-scientifica dei «neuroni specchio», che l’osservazione e la ripetizione dei gesti degli altri possa rappresentare un’importante via di conoscenza interiore. Indirettamente la vicenda sembra così riverberare il processo della scrittura creativa, che, per l’autrice, deve poggiare necessariamente sul dato della realtà dell’altro: imitare la natura.

Una riflessione di grande respiro sull’arte emerge anche in Verdi, un contadino ostinato, dell’ottobre 2013, in cui il libero flusso dei pensieri di un musicista evidenzia il bisogno per l’artista di rifuggire le chiacchiere (lo sterile bla-bla-bla degli ospiti perditempo e dei critici) per difendere il sacro silenzio che presiede a ogni atto creativo, che, come lui stesso afferma:

esige uno stile, un ordine, una disciplina.

Esplicitando il suo pensiero, la narratrice quindi aggiunge:

La sua musica, lui lo sapeva bene, germinava sotto quella scorza di duro silenzio come il grano sotto la terra e la neve che sarebbe caduta.

E non è certo un caso che Anna Dadomo, sacerdotessa da sempre del culto del silenzio interiore, esponga con forza una tale concezione. Così come non è certo un caso che, in un altro racconto, Una paludosa domenica, del gennaio 2011, la scrittrice vagheggi:

un libro che elargisse insegnamenti e saggezza, che la acquietasse, la confortasse con il suo dire sommesso, pacato, amoroso quasi […] In compagnia di un libro avrebbe attraversato quella paludosa domenica chiusa in se stessa come crisalide.

È questo, forse, il libro che Anna Dadomo insegue con slancio inestinguibile fin dal suo esordio, nella forma del romanzo come in quella del racconto breve, genere quest’ultimo che appare particolarmente congeniale al suo stile, capace di condensare in pochi tratti la rivelazione febbrile di una scoperta.

 

Maggio 2017

 

Carol Morganti

 

NOTE

1. Guido Conti, Se Céline mette la gonna, in «Qui Parma» n. 24, 24 giugno 1994, p. 8.

2. In una lettera inviatami il 15 giugno 2014 Anna Dadomo mi confessa: «Ho scritto Regressione quando vivevo sola in una topaia tra urla e canti di ubriachi, portavo i capelli rapati a zero, pesavo 42 Kg e portavo maglioni larghissimi dove nascondermi».

3. Qui è riecheggiata la poetica ungarettiana nel duplice rimando a Veglia e a I fiumi, testi cui Dadomo si rifà per la simbologia dell'acqua come purificazione.

4. In particolare nelle seguenti raccolte di poesie: Il mare di San Giovanni (Silva editore), Parma 2000; Non facciamo sapere alle cose (Mobydick editore), Faenza 2004.

 

 

"Il colore del verde" nell'Eden della scrittura

 

“Il colore del verde” nell’Eden della scrittura

di Camillo Bacchini

 

I versi di Anna Maria Dadomo, da Franco Maria ricci “vestiti di un chiaro blu carta da zucchero” in un volume che soltanto la sua mano di inarrivabile Editore del Bello poteva concepire così finemente sobrio ed elegante ad un tempo, vanno a costituire ­ – pagina dopo pagina fluendo come una tranquilla sorgente di sangue tiepido – un diario intimo di disperata bellezza. La poesia di Anna, qui raccolte sotto il titolo di Il colore del verde sono incorniciate da un dialogo a distanza, e pur intimamente fraterno, costituito dalle pagine introduttive dell’Editore e da quelle, conclusive, da lei.

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Un' ora con Anna Maria Dadomo di Marco Fiori *

Un'ora con Anna Maria Dadomo

 

di Marco Fiori*

 

Negli annuari tematici dell'ALI dal 2012 al 2022 sono stati pubblicati sedici racconti espressamente realizzati, anno dopo anno, da Anna Maria Dadomo e ora raccolti nel presente volumetto.

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Prefazione di Davide Barilli a IL PROFUMO DI IERI

 

Non so se esiste, fra le pagine critiche sulla letteratura femminile parmigiana, uno studio complessivo delle voci più significative; se qualcuno ha compulsato (e se la risposta fosse negativa questa breve nota vale come invito a farlo) le vibrazioni  delle eredi di Bruna Piatti o di Lea Quaretti, solo per citare due nomi fra i più  significativi del Secolo breve. Di certo, in tale ottica, andrebbe valorizzato, con il dovuto risalto, il percorso lento e silenzioso di Anna Maria Dadomo. Una voce, la sua, di comprovata evidenza, asciutta e precisa, nella continua ricerca di un dialogare continuo con un narrare empatico. Termine, quest'ultimo, slegato da disegni morali o peggio didascalici. Empatico, parlando dei racconti della Dadomo, significa infatti percorrere il tempo dell'esistenza in funzione anti retorica. È, il suo narrare, un percorso ignaro delle mode del momento.   Parlo, in particolare, di questi brevi testi, pubblicati nel corso degli anni(2000-2017) nella rubrica della domenica della Gazzetta di Parma: racconti mai d'occasione, meditati e felici che colpiscono per la continua, ossessiva, presenza di trame giocate su storie dichiaratamente semplici. Rapporti parentali, amicizia, amori, legami, rêverie, che incidono vite solo apparentemente banali, facendo emergere corrispondenze e emblemi che trovano la loro ragione segreta, molto spesso, nel calendario delle stagioni e nelle figure di un bestiario domestico. In queste storie antidogmatiche, lineari e implacabili, di colpo compare un graffio, una menda, un nodo nel tessuto che rivela un mondo, una spaccatura del risaputo, come quelli di cui parlava Italo Calvino riferendosi ai tappeti degli indiani navajos nel saggio introduttivo di Messico di Emilio Cecchi. Ecco, Dadomo incide -usando il bisturi della scrittura - pertugi che attraversano la pagina lieve di storie su cui si aprono ferite emblematiche, quelle che il trascorrere del tempo riserva a chi cerca il battito vitale in una natura non certo madre o matrigna, ma sfondo fisico in cui si sviluppano le lente, ossessive, presenze di figure confinate da un essere preda di domande irrisolte. Si tratta di una narrativa che nel frammento trova le proprie ragioni per aprirsi al mistero, facendosi in qualche modo -  forte della propria cifra icastica- essa stessa misteriosa e insondabile, come insondabili sono l'animo umano e le sue profondità.  

                       

                                  Davide Barilli

 scrittore, responsabile della pagina culturale della Gazzetta di Parma



ANNA MARIA DADOMO: INCANTO DI QUOTIDIANA BELLEZZA

recensione di Marzio Dall'acqua al libro  Il profumo di ieri 

Il profumo di ieri un nuovo libro di Anna Maria Dadomo: come sempre è una gioia, una ghiottoneria che già alletta il gusto del lettore buongustaio, che ama la bella scrittura, l'italiano elegante, la chiarezza  espositiva e l'evocazione di scene  e mondi che appartengono insieme all'esperienza comune ed hanno la lievità di fibrillazioni dell'anima, perchè l'autrice riesce a suonare tutte le corde del cuore, pur raccontando eventi quyotidiani, apparente,mente spesso fatti di niente senon di emozioni vibrate come note in sospensione.

Edito dalle Grafiche Step editore, un libro corposo, ma leggero a sostenere con la mano, elegante ma semplice, fitto di racconti ( occorrono quasi quattro pagine nell'indice finale per elencarli) eppure consequenziale come un romanzo. E ben si adatta  - sintesi visiva e guida per il lettore - l'immagine scelta da Franco Maria Ricci e Laura Casalis in copertina di un colibrì fremente d'ali aguzze che vibrano sopra il suo minuto corpo che si slancia ad assaporare il cuore di un caldo fiore d'ibisco dai petali barocchi, sensuale come un sesso in amore, maturo e cedevole. Nel biglietto di accompagnamento Anna Maria mi ha scritto:"Il lettore-colibrì si tufferà più volte nel testo-corolla dell' l'hibiscus -racconti, buon per lui".

Proprio perché i racconti, tutti di una misura garbata, sono leggibili come sfogliare i tarocchi smazzando con tempi e modi diversi: non si impongono, ma si adattano alla nostra giornata ed ai nostri umori. E questo è già un piacere da assaporare e gustare con anticipata voglia, perché ogni racconto è un incontro con Anna Maria Dadomo, ma soprattutto un'avventura ed un viaggio nel suo mondo fatto in  apparenza di paesaggi minimali , ma narrati con l'anima e il corpo. C'è sempre in questi racconti una forte fisicità che diventa incontro e fusione( ma anche talora scontro) con la natura. Una natura raccontata con la lucida e appassionata adesione della pittura gotica fiamminga a rappresentare ogni minimo particolare del reale che ci circonda, con il rigore del miniaturista, ignorando la differenza tra universo e microcosmo, tra grande e piccolo, perché tutto diventa grande nel momento che lo"vivo", per cui questi sono racconti vitali e vitalistici, dove seduzione, più che erotismo esplicito, affascinando e avvolgendo il lettore sono insieme una chiave interpretativa. Il lettore de La Gazzetta di Parma  inoltre rileggerà con piacere alcuni di questi racconti che aveva a suo tempo incontrato sulle pagine domenicali del quotidiano, dal 2000 in poi.

Mi bastaleggere alcuni racconti per ritrovare forte e vivida l'impressione che ho avuto quando sono stato a Peredelkino, a venticinque chilometri da Mosca, dove era un villaggio di scrittori voluto da Gorky, dove visse e abitò Boris Basternak. Qui scrisse il suo unico romanzo Il dottor Zivago. Nel 1990 fu anche set del film La casa Russia di Fred Schepisi, dala romanzo di John le Carrè, con Sean Connery e Michelle Pfeiffer.Vedendo il piccolo lago, le modeste alture intorno, tra cui quella dove il poeta è sepolto con la figlia, la sua dacia, ora museo, la bella ampia finestra ed i boschi di betulle l'incanto che si subisce è la scoperta che l'immenso paesaggio che ci avvolge in ogni passo del romanzo, con spazi che sembrano incommensurabili come la Russia, in realtà è tutto qui, in questi minimi chilometri quadrati, che stanno tutti distesi come un presepe davanti ai nostri occhi. Ecco, Anna Maria Dadomo, come Pasternak, ha dilatato un piccolo mondo di un giardino inselvatichito, di una villa abbandonata, di campi strozzati dalla periferia e di Appennini azzurri all'orizzonte, in ujh universo, facendone un cosmo sempre diverso, soprendente.Il segreto è che,come Pasternak, anche lei è poeta, che distilla le parole, le riduce a gemme preziose che devono rifulgere per un pensiero, per una emozione che diventino comprensibili ed elegante comunicazione, che seducono il lettore facendolo sentire solidale e partecipe di ciò che accadrà nelle righe successive. Così la fatica delle infinite "varianti" dello scrivere e riscrivere, nel tempo e attraverso il tempo, diventa leggerezza e melodia. Questa natura di poeta la fa apparire un "pifferaio" che trasforma il ritmo della frase in musica, in piacere dell'orecchio e dell'occhio insieme.La scrittrice inoltre  si mette a fianco del lettore, non di fronte, poiché spesso usa la terza persona, parla di sè (forse) ma narra di un'altra, in un gioco di specchi affascinante.

È profondamente vero quello che scrive Davide Barilli nella prefazione:« Si tratta di una narrativa che nel frammento trova le proprie ragioni per aprirsi al mistero facendosi in qualche modo - forte della propria cifra icastica - essa stessa misteriosa ed insondabile, come insondabili sono l'animo umano e le sue profondità».

Marzio Dall'Acqua

ANNA MARIA DADOMO Il profumo di ieri

Grafiche Step editore, Parma 2019, € 18 

recensione apparsa (decurtata) in Gazzetta di Parma , sez. CULTURA, martedì 26 marzo 2019