Postfazione di Carol Morganti a Il profumo di ieri

Postfazione di Carol Morganti

 

Nei romanzi e nei racconti di Anna Maria Dadomo non vi è confine fra panismo, anelito divino e narrazione, perché il suo sguardo contempla dimensioni che non appartengono alla norma, al pensiero comune. Dove c’è apertura e scoperta, si svela l’infinito, dove gli occhi colgono i doni che il mondo-natura dischiude, si affaccia quell’oltre in cui le inquietudini si placano e l’animo trova finalmente la sua pace. È difficile, oggi, imbattersi in una narrazione vitale e sorprendente, capace di raggiungere il proscenio dell’inconscio e ascendere agli spazi dell’anima, dove il racconto diventa lirica e si fa rivelazione. È questa la prosa di Anna Dadomo, sempre intensa, ritmica, ma anche graffiante e corrosiva.

Guido Conti definisce la scrittrice «l’anti Tamaro», perché nella sua narrativa non vi sono stereotipi, non vi sono sentimentalismi, non vi è nulla che rimandi alle «convenzioni tipicamente femminili» (1). Ciò è palese fin dalla sua prima prova, Regressione (Rebellato editore), del 1990: un romanzo-diario dal linguaggio duro, quasi osceno, che scandaglia l’esperienza estrema dell’anoressia (2). La morte-regressione, l’ascesa «nelle profondità e nel buio» è il punto di approdo di un percorso fisico e mentale che, solo nel finale del testo, appare come non definitivo, lasciando intravedere una possibile «rinascita» attraverso «la ricerca dell’assoluto e del divino».

Nelle opere successive, l’autrice sembra riversare l’anelito al divino e all’assoluto nel contesto della vita ordinaria, nelle semplici azioni quotidiane dei suoi protagonisti, quasi sempre donne. Mutazione che diviene manifesta a partire dal 2006. Se infatti nei racconti Il fiore malato e Alveare di voci (a Virginia Woolf), del 2005, le protagoniste portano ancora i segni di un dolore interiore che le consuma, di una malattia dell’animo che mina inesorabilmente la loro esistenza; negli anni a seguire, fino al 2016, nelle pagine della Dadomo prende corpo una nuova immagine femminile, intrappolata in una quotidianità annichilente e senza apparente via d'uscita. Ne costituiscono alcuni dei motivi ricorrenti la costrizione imposta dal ruolo di moglie, gli affetti non ricambiati, le aspettative deluse, il peso frustrante e ripetitivo delle incombenze domestiche. Le donne in questi racconti non appaiono tuttavia inermi o rinunciatarie, ma si mostrano talvolta capaci di sfuggire alla morsa della solitudine, dell’isolamento e dell’incomunicabilità, attingendo a risorse interiori che consentono loro di uscire dal silenzio che le isola, di «ritrovare la parola». In Il pranzo della domenica, del luglio 2007, la protagonista reagisce all’indifferenza dei familiari, sognando di raggiungere il mare per compiere una sorta di «rituale salvifico» che le avrebbe consentito di riconciliarsi con la vita. 

Sognava di partire per il mare. Ne aveva un desiderio irresistibile, quasi doloroso. Ne vedeva l’immensità, il colore, ne sentiva l’odore. Coricata sulla spiaggia di fronte a quella distesa sempre mutevole eppure sempre uguale solcata dalle barche a vela, dalle navi, dai grossi pescherecci, avrebbe visto l’orizzonte fondersi con il cielo, le onde arrivare docili e spumeggianti, avrebbe toccato la sabbia, l’avrebbe fatta scorrere tra le dita, avrebbe raccolto conchiglie passeggiando sulla battigia. Gesti banali che il suo desiderio rivestiva di un amore vero e nascosto e che assumevano, in quei momenti di dolorosa solitudine, la sacralità di un rituale salvifico. E la voce del mare, anche se immaginata, riusciva a penetrare il suo silenzio, a ristabilire un rapporto, a restituirle paradossalmente la parola (3).

Il mare, con un’analoga funzione rigenerante per la protagonista, appare anche in Ipotesi mute di una casalinga, del novembre 2009, associato ancora una volta al mondo dei desideri chimerici:

come una tiepida corrente marina, i sogni l’avrebbero cullata e portata lontano, chissà dove, per restituirla l’indomani a se stessa di nuovo integra.

Le storie della Dadomo sono colme di eventi minimi che si illuminano di significati imprevedibili e mai scontati, in una narrazione sempre avvincente che penetra entro le pieghe segrete delle cose.

La protagonista del racconto La cattura di uno sciame, del giugno 2014, è un’apicoltrice. Impegnata nell’operazione non priva di rischi di trasmigrare un alveare, ha una rivelazione, che le apre, inaspettata, la visione di un “oltre”:

L’arnia apparve nelle sue mani fosforescente come corpo celeste partecipe  [] dello splendore di lontane costellazioni.

Il divino che si manifesta all’improvviso nella natura è un tema centrale per la Dadomo, nelle opere in prosa come nella produzione poetica (4).

Lode all’aspidistra dei sepolcri, racconto dell’aprile 2014, manifesta, ad esempio, l’importanza cui assurge la natura nel mondo poetico dell’autrice, andando a delineare la figura di una donna che, come la pianta dell’aspidistra, ama sostare vicino alle tombe e nei pressi dei vasi posti nelle chiese presso l’immagine del Cristo morto, decisa ad apprendere dal vegetale la «costanza a durare, soli, per anni».

Ma è la rivelazione di un “oltre” nel quotidiano a rappresentare sovente, in queste narrazioni, la chiave per sfuggire la solitudine e riconciliarsi con la propria interiorità, come nel brano dal titolo emblematico Dormire vicino al cielo, del marzo 2014:

Quel cielo così suo sarebbe stato come una benedizione. Un viatico. Quello che le serviva per acquietarsi, rappacificarsi con se stessa, e affrontare la notte.

Per la protagonista di un racconto ambiguo e dai tratti visionari quale Signore, fammi uscire di qui (ottobre 2010), invece, la fuga dalle costrizioni dell’esistenza sembrerebbe irrealizzabile:

Fammi uscire, pregò guardando verso l’altare. Signore, fammi uscire di qui. Soffoco. [...] Si girò di nuovo verso il fondo della chiesa aspettandosi quasi che l’intensità del suo stesso desiderio, irresistibile, potesse spalancare il portale, afferrarla, portarla in salvo. No. Era buio laggiù. E chiuso. Non ce l’avrebbe fatta a mettersi in salvo. Si afflosciò sul banco, rassegnata. Lo sapeva, non appena la cerimonia fosse terminata, il portale di nuovo spalancato, la luce, quella luce calda viva trionfante che era stata esclusa e che sentiva premere sulla facciata e sui muri della chiesa, sarebbe entrata come un fiume di fuoco e li avrebbe travolti, inceneriti. Tutti. Lei compresa. 

Nei testi di Anna Dadomo si riconosce sovente una perspicace attitudine a riflettere sui meccanismi interni alla creazione artistica. Il racconto I neuroni specchio e la Lillina, del gennaio 2014, ad esempio, sembra suggerire, sulla scorta della scoperta neuro-scientifica dei «neuroni specchio», che l’osservazione e la ripetizione dei gesti degli altri possa rappresentare un’importante via di conoscenza interiore. Indirettamente la vicenda sembra così riverberare il processo della scrittura creativa, che, per l’autrice, deve poggiare necessariamente sul dato della realtà dell’altro: imitare la natura.

Una riflessione di grande respiro sull’arte emerge anche in Verdi, un contadino ostinato, dell’ottobre 2013, in cui il libero flusso dei pensieri di un musicista evidenzia il bisogno per l’artista di rifuggire le chiacchiere (lo sterile bla-bla-bla degli ospiti perditempo e dei critici) per difendere il sacro silenzio che presiede a ogni atto creativo, che, come lui stesso afferma:

esige uno stile, un ordine, una disciplina.

Esplicitando il suo pensiero, la narratrice quindi aggiunge:

La sua musica, lui lo sapeva bene, germinava sotto quella scorza di duro silenzio come il grano sotto la terra e la neve che sarebbe caduta.

E non è certo un caso che Anna Dadomo, sacerdotessa da sempre del culto del silenzio interiore, esponga con forza una tale concezione. Così come non è certo un caso che, in un altro racconto, Una paludosa domenica, del gennaio 2011, la scrittrice vagheggi:

un libro che elargisse insegnamenti e saggezza, che la acquietasse, la confortasse con il suo dire sommesso, pacato, amoroso quasi […] In compagnia di un libro avrebbe attraversato quella paludosa domenica chiusa in se stessa come crisalide.

È questo, forse, il libro che Anna Dadomo insegue con slancio inestinguibile fin dal suo esordio, nella forma del romanzo come in quella del racconto breve, genere quest’ultimo che appare particolarmente congeniale al suo stile, capace di condensare in pochi tratti la rivelazione febbrile di una scoperta.

 

Maggio 2017

 

Carol Morganti

 

NOTE

1. Guido Conti, Se Céline mette la gonna, in «Qui Parma» n. 24, 24 giugno 1994, p. 8.

2. In una lettera inviatami il 15 giugno 2014 Anna Dadomo mi confessa: «Ho scritto Regressione quando vivevo sola in una topaia tra urla e canti di ubriachi, portavo i capelli rapati a zero, pesavo 42 Kg e portavo maglioni larghissimi dove nascondermi».

3. Qui è riecheggiata la poetica ungarettiana nel duplice rimando a Veglia e a I fiumi, testi cui Dadomo si rifà per la simbologia dell'acqua come purificazione.

4. In particolare nelle seguenti raccolte di poesie: Il mare di San Giovanni (Silva editore), Parma 2000; Non facciamo sapere alle cose (Mobydick editore), Faenza 2004.