Troppa solitudine

Troppa solitudine

 

Troppa solitudine. In quella casa di montagna fatta di pietre dure e grigie. In quella stanza. Con la testa china sul libro. Cercare di studiare per dimenticarla. Ma lei ti circondava. Ti stringeva d’assedio. E alle spalle l’armadio scuro, pesante, con le ante a vetri e le tendine gialle dove la mamma teneva le sue cose: la mantellina viola di lana fatta all’uncinetto, la borsetta bianca con fili dorati per quando usciva a passeggio (fino ai giardinetti, non oltre), i figurini di moda, le tovaglie e i tovaglioli, un binocolo, un sacchetto con palline di canfora. Che vigilava.

 

   Era arrivata verso mezzogiorno. Stordita dal lungo viaggio in corriera per una strada tutta curve. Dalla pianura alla montagna. Aveva con sé pochi soldi, bastavano. Doveva solo studiare. Nient’altro. Preparare l’ultimo esame di letteratura italiana, la tesi di laurea era quasi pronta. Aveva aperto la porta. E l’ombra fredda dell’ingresso a volta, basso, cupo, lungo l’aveva ghermita. Già da lì avrebbe dovuto saperlo. I passi cauti, timorosi sul pavimento per la malta sbriciolata caduta sul pavimento che legava le pietre squadrate. E goccioloni d’acqua nera che pendevano. Anche la scala, gradini di arenaria e ringhiera di legno, che poggiava all’alto muro di pietre spaccate, e che portava al primo piano e da lì al secondo dov’erano due stanzette adibite a camere da letto, era ricoperta da un velo di sabbia. Ma le pietre soprattutto. Ombre inquietanti custodivano nelle loro facce sagomate. E segreti antichi. E sogghigni.  Già sapevano come sarebbe andata a finire. E quel sentore di umidità, di muffa che aleggiava ovunque. Ma la piccola stanza dove si pranzava, la migliore della casa, era asciutta, in ordine. Le pareti lì non erano di pietra nuda, ma levigate e intonacate. Aveva aperto la finestra. E la luce aveva fatto irruzione come cucciolo di cane dietro la porta impaziente di entrare. Aveva spolverato il tavolo, e subito aveva tirato fuori il libro e il quaderno degli appunti dalla piccola valigia che aveva portato, e senza neanche pensare di prepararsi qualcosa da mangiare o di uscire a comprarsene – il panificio era difronte al portone d’ingresso – si era messa a studiare. Quel senso di solitudine che aveva provato all’entrare, quell’oppressione che l’aveva colta e che non voleva andarsene, era più della fame. Della sete. Della stanchezza. Non guardare niente. Non guardare intorno. La testa china sul libro. Con ore di studio profondo e concentrato avrebbe dimenticato l’incontro con quelle pietre color cenere, immobili, che stringevano da ogni lato, l’assediavano, la tenevano prigioniera come in una torre-fortezza. E cospiravano. Cercare di eluderle, questo doveva fare.

   Dopo sarebbe salita in camera a farsi il letto. E anche lì avrebbe aperto le finestre e il sole sarebbe entrato e avrebbe asciugato il materasso umido, le coperte.  Non farlo adesso. Rinfrancarsi prima. Non perdere tempo. Studiare. L’amore platonico nel  Il dolce stil novo. Meno complicato di quello fisico, le sembrava. Più sicuro. Senza conseguenze pratiche. Tutto si risolveva con qualche sospiro, qualche notte insonne. Qualche pianto. Qualche preghiera. Così creativo inoltre, nella sua mancata consumazione fisica. Stesura di rime, di canzoni, di sonetti. Imperituri. La poetica contemplava la donna-angelo che nobilita l’uomo attraverso l’amore e lo porta fino a Dio. Ah. Le rime di Dante ne La Vita Nova. Di Guido Guinizzelli, l’iniziatore. Di Guido Cavalcanti. Di Lapo Gianni. Di Cino da Pistoia.

 

 

 

 

        Amore e ’l cor gentil sono una cosa

        sì come il saggio  in suo dittare pone,

        e così esser l’un sanza l’altro osa

        com’alma razional sanza ragione.

 

       Falli natura qund’è amorosa,

            Amor per sire e ‘l cor per sua magione

             dentro la qual dormendo si riposa

             tal volta poca e tal lunga stagione.

 

                                         Bieltate appare in saggia donna pui,

                                            che piace a li occhi sì, che dentro al core

            nasce un disio de la cosa piacente;

 

            e tanto dura talora in costui,

            che fa svegliar lo spirito d’Amore .

            E simil face in donna omo valente.

 

 

Ripeteva i versi a voce alta, più e più volte. Scandendo bene le parole. Smussavano la paura. Le facevano compagnia. Passava da un autore all’altro sfogliando le pagine del libro senza un ordine preciso, lasciandosi catturare dagli incipit, come ape da fiore a fiore.  Un alito tiepido si innalzava da quei versi, che poi restava sospeso per un po’ nell’aria. Leggero. Odoroso.

 

 

Al cor gentil rempaira sempre amore

come l’ausello in selva a la verdura;

né fe’ amor anti che gentil core,

né gentil core anti ch’amor, natura:

ch’adesso con’ fu ’l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente,

né fu davanti ’l sole;

e prende amore in gentilezza loco

così propïamente come calore in clarità di foco.

        

 

Il suono della sua voce l’aiutava. Quei versi lenivano la sua sofferenza, l’allontanavano. La calmavano. Chiarori si aprivano. Vie di fuga. Bianche vele verso spiagge remote.

 

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,

                                                        che fa tremar di chiaritate l’âre
                                                        e mena seco Amor, sì che parlare
                                                        null’omo pote, ma ciascun sospira?

O, Deo, che sembra quando li occhi gira

                                                         dica l’Amor, ch’i’ nol savria contare:

                                                         cotanto d’umiltà donna mi pare

                                                         ch’ogn’altra ver’di lei i’ la chiam’ira.

 

 

   Eppure quella solitudine venata d’angoscia non se ne andava. Alzava la testa. Il cielo nel riquadro della finestra era di un azzurro puro, uniforme. Così il verde degli ippocastani che si intravedevano. E il profilo delle colline. Le velature. Le voci della strada che arrivavano. Bastava uscire di casa. Attraversare di corsa l’ingresso  cupo, melmoso, fondo come uno stagno racchiuso da quelle pietre. Scendere le scale in punta di piedi, piano: se si fossero accorte che voleva fuggire le avrebbero sbarrato il cammino, le sarebbero franate addosso pur di non farla uscire. Era prigioniera. E quel senso di abbandono che ingigantiva dentro. Anche se non voleva ammetterlo. Doveva resistere. Doveva farcela. Nessun aiuto le sarebbe venuto dalle cose. Così remote. Inerti. La borsa di tela che usava il babbo per la spesa agganciata alla maniglia della porta del cucinino; la ragnatela che oscillava tra l’orologio e il quadro appeso; le fotografie in mezzo alle tazzine da caffè nella vetrinetta; la televisione coperta da una fodera cucita dalla mamma; i cardi secchi impolverati nel vaso azzurro. Non distrarti. Studia. Leggi. Rileggi. Vai avanti. Le pietre sono pietre. Sei tu che sei triste. Questa pesantezza ce l’avevi già dentro quando sei arrivata. Non dare la colpa alle pietre. Prepara bene questo esame, l’hai già fallito una volta. Riprendi a leggere. Finisci. Non ascoltarti.

 

                                                                  Non si poria contar la sua piagenza

                                                                  ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute

                                                                  e la beltate per sua dea la mostra.

                                                                  Non fu sì alta già la mente nostra

                                                                  e non si pose ‘n noi tanta salute,

                     che propriamente n’aviàn conoscenza.

 

                                                                         

   Uno scoppio di voci giovani e di risa dalla strada che passava davanti all’ingresso della casa e portava al Santuario. La conosceva quella strada per averla percorsa tante volte in estate. Al tramonto il sole restava a lungo sul muretto a secco che la fiancheggiava, e sul viale, e sul sagrato della chiesa. L’acciottolato caldo. Sentirlo. Sostare in quella luce dorata. Miele. In quel silenzio dorato. Lo stesso che circonda i santi nei quadri. Diverso da questo dove sono, livido. L’ombra degli ippocastani è calda, trasparente. Lieve. Mi sento così pesante. Pietre sono posate sul mio cuore. Pietre riempiono le mie tasche. Pietre nebbiose. Che bisbigliano. Ma tu non ascoltare. Non sostare davanti allo specchio del bagno. Non guardarti. Tieni gli occhi chiusi. Bene. Così. Adesso vai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. E rimettiti a studiare. Il tempo sgocciola lento. Non passa mai. Le ore avanzano a fatica. Le ombre sulla faccia delle pietre si ammassano. Le due. Le tre. Andasse più in fretta il tempo. Più in fretta. Perché, poi? Il sole adesso era dietro casa. Il buio incominciava a riempire la stanza. Gli angoli. Ho freddo. Tremo. Non ho mangiato niente. Devo andare di sopra a farmi il letto.

 

                        Perch’i’ no spero di tornar giammai,

      ballatetta, in Toscana,

       va’ tu, leggera e piana,

                                                                                dritt’a la donna mia,

                                                                                che per sua cortesia

                                                                                ti farà molto onore

 

       Tu porterai novelle di sospiri

             piene di dogli’ e di molta paura;

                  ma guarda che persona non ti miri

           che sia nemica di gentil natura:

            ché certo per la mia disaventura

                                                                            tu saresti contesa,

                                                                            tanto da lei ripresa

  che mi sarebbe angoscia,

                                                                            dopo la morte, poscia,

                                                                            pianto e novel dolore.

                                                                     

 

   Cosa sto leggendo? Non capisco più le parole. Il loro significato. È inutile andare avanti. Non riesco a muovermi dalla sedia. Dal tavolo. Il sangue non scorre più nel mio corpo. Ristagna. Le braccia sono rigide, le mani, e anche le gambe. Balbetto parole senza senso. Che affanno.

 

                Tu senti, ballatetta, che la morte

                      mi stringe sì, che vita m’abbandona;

                e senti come ‘l cor si sbatte forte

                     per quel che ciascun spirito ragiona.

        Tanto è distrutta già la mia persona,

   ch’i’ non posso soffrire:

                                                                              se tu mi vuoi servire,

                                                                              mena l’anima teco

                                                                              (molto di ciò ti preco)

                                                                             quando uscirà dal core.

 

 

   Vorrei stendermi sulla panca contro il muro. Ma devo alzarmi con attenzione. Muovermi lentamente. Se scivolo per terra mi frantumerò, mi scheggerò come pietra.

 

 

Deh, ballatetta, a la tu’ amistate

quest’anima che trema raccomando:

menala teco, nella sua pietate,

a quella bella donna a cu’ ti mando

 

 

                                                            

   Sono pochi passi eppure è così lontana la panca. Ma potrò coricarmi. E mi riposerò. La testa sul cuscino rosso. In questo silenzio gelato. In attesa del tempo che levigherà il mio viso, lo appiattirà, due buchi gli occhi, un incavo appena accennato, la bocca.  Il Tempo, come lo amo. Il Tempo cancellerà qualsiasi traccia di dolore, di desiderio, di passione, di paura, d’amore. Dormirò un sonno di secoli sulla panca contro il muro. È questo che vogliono le pietre del muro. Avermi come stele di pietra. Come mi amerebbero allora. Non avevo capito. Era difficile capire. Ma appena sono entrata mi hanno riconosciuta subito. E hanno deciso.  Erano in attesa di me. Mi vogliono con loro. O, perdonatemi. Anch’io voglio stare con voi. I piedi sono freddi, non si muovono più, ma riuscirò a trascinarmi fino alla panca, a coricarmi. Presto farà buio. L’oscurità inghiottirà i cappelli di paglia del babbo. I suoi bastoni da passeggio. Gli ombrelli. La macchia di umidità sulla parete, come una nuvola tempestosa, gonfia di pioggia. La donna del quadro con un seno fuori dal corsetto e quel capezzolo lungo e scuro come una mora matura. E Lo specchio rettangolare con macchie nere e, vicino, il collage che avevo regalato alla mamma e lei lo ha portato qui, nella casa delle vacanze, nella casa dell’estate. Perché? Forse non le piaceva. Invece io guardo teneramente lo spaventapasseri che allarga le braccia e fa segni di saluto affacciato alla torre più alta del castello. Balbetto smarrita.

 

                 

                                                                        Deh, ballatetta, dille sospirando

                                                                        quando le se’ presente:

                                                                        «Questa vostra servente

                                                                         vien per istar con voi, partita da colui

                                                                          che fu servo d’Amore.»

    Tu, voce sbigottita e deboletta
             ch’esci piangendo de lo cor dolente,
          coll’anima e con questa ballatetta
            va’ ragionando della strutta mente
.

 

   Devo alzarmi. Muovermi. Fare qualche passo intorno alla stanza. Andare a fare il letto. Chiudere la finestra della camera. Lentamente. Aggrappati al corrimano. Ecco, così. Brava. Hai visto? Ci sei riuscita, basta volerle le cose. Chiudi anche questa finestra. E accendi la luce. Il buio nella stanza sale come un’acqua cupa. Il buio è crudele. Adesso torna a studiare. Non crearti fantasie. Le pietre non respirano. Non parlano. Sono morte. E le ore passano. Avanzano per conto loro. Il Tempo è indifferente.

 

 

            Voi troverete una donna piacente,

                         di sì dolce intelletto

                                                                           che vi sarà diletto

                                                                           starle davanti ognora.

                                                                           Anim’, e tu l’adora

                                                                           sempre, nel su’ valore.

 

 

  Tra poco parte l’ultima corriera. Faccio in tempo a prenderla. Correre fino alla piazza.

Aveva chiuso il libro. Il quaderno. Si era alzata di scatto. Non importava la sconfitta. Non importava se tronando a casa l’avrebbero canzonata. Doveva fuggire da quell’ombra che la circondava. Da quelle pietre che la imprigionavano, l’avvinghiavano, la spingevano verso un tempo lontano. Immobile. Senza cuore. Senza voce. Senza nome. Doveva fuggire. Subito. Per non morire di solitudine. Di troppa solitudine.

 

 

in ALI 2023 – oggetto: Le statue stele della Lunigiana custodi di strade e di guadi

 

 

 

 Amore e ‘l cor gentile sono una cosa, sonetto di Dante Alighieri contenuto nel XX capitolo della Vita Nova (1265-1321)

 

Al cor gentil rempaira sempre amore, canzone-manifesto della nuova tendenza poetica Il Dolce stil Novo iniziata da Guido Guinizzelli (1235-1276)

 

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, sonetto di Guido Cavalcanti (1258-1300)

 

Perch’i’no spero di tornar giammai, ballata di Guido Cavalcanti