385 volte come Bonnard

385 volte come Bonnard

 

Adesso a prevalere era lo spettacolo del foliage. Il risveglio dei gialli, degli arancioni, dei marroni. Nella persistente varietà dei verdi. Delle magnolie. Dei pini. Dell’erba. C’era anche, più nascosta, l’umidità delle cortecce che si sfaldavano, e marcivano. Dei muschi sotto gli aghi di pino. Della polvere di legno ai piedi degli alberi. E radure con i giovani ailanti in pennacchi color limone. Conoscere tutto questo, e ritrovarlo nuovo al mattino quando si osservavano i diversi paesaggidel giardino dall’interno sicuro della casa. Attraverso le finestre. Passare dall’una all’altra. Su e giù per le scale. Non sapere quale preferire. Tutti ugualmente affascinanti. Incantevoli. Perché scegliere? Scriverlo.

 

Dalla finestra della camera da letto si vedeva il bosco dei tigli. Un bosco che era stato folto nell’estate appena trascorsa. Colmo di echi e di ombre. E che ora svelava, perdendo le foglie giorno dopo giorno, i nidi degli uccelli nascosti e protetti fino a quel momento dalle fronde. Con tutto quel cielo intorno. Di un azzurro uniforme e compatto. Mentre ai loro piedi scorreva la striscia gialla dei topinambur, e dei cespugli rugginosi dei noccioli. Da quella dello studio si coglievano gli olmi e il prato invaso dalle erbacce che prosperavano indisturbate. Sporgendosi di lato da quella che dava luce a un modesto salottino la fontana d’arenaria, prigioniera dei cardi e dei germogli del prunus cerasifera, nati dalle due piante madre che crescevano poco lontano. Una a foglie rosse, l’altra più grande, a foglie verdi, che si piegavano verso terra. Entrambe così poco esigenti in fatto di terreno. Di sole. Di potatura. Di concime. Di annaffiature. Di cura. Resistenti al caldo. Al freddo. Generose nella fioritura primaverile. Fiori bianchi a cascata. Fiori rosa a cascata. Spumeggianti. E i frutti che dava il pruno ciliegio dalle foglie verdi, un mix fra prugne e ciliegie, con buccia viola sottile a maturazione, che sempre si mangiavano di gusto nel profumo dorato dei tigli che riempiva l’aria. Ce n’era per tutti, anche per gli uccelli.  Poi si metteva la scala sotto la pianta e si riempiva il cestino. (Il gran daffare che si aveva allora in cucina per farne marmellate e composte dal gusto asprigno da consumare in inverno.) E mentre si era lì a cogliere dai rami più bassi quelle succulenti prelibatezze, si decideva che, per ripagarlo della sua spontanea generosità arborea, lo si sarebbe liberato dalle liane della vitalba, che sorniona e silenziosa ci girava intorno, avviluppava il tronco, si lanciava alla conquista dei rami. Insieme all’edera. No. Quelle due non avrebbero portato a termine la loro opera di occultamento, di soffocamento.  E si tornava alla pianta con i guanti, e si dava di piglio alle cesoie, e con baldanza si recidevano quelle corde vegetali, e la si liberava. Così si sarebbe fatto, pur mancando il brusio dell’acqua, anche per la fontana, intrappolata in quella stretta rete. Magari una domenica mattina appena alzati quando il rumore del traffico era smorzato e tutto, villa podere giardino parco, appariva in un silenzio incantato. Dove solo il picchio, che conosceva ogni albero secco, ogni persiana, ogni portoncino di legno della villa, lavorava indaffarato, spadroneggiando, lanciando, se disturbato, il suo verso stizzito. E gli scoiattoli rossi sempre in cerca di cibo. (Un giorno, per caso, se ne era sorpreso uno dentro il vaso dell’oleandro. Dopo uno scambio di sguardi lui era scappato via con un balzo, e trovato riparo nella tuia.)

Il più delle volte però non bastava osservare dalla finestra, bisognava uscire per essere là dove quella vita vegetale si mostrava in una festa continua. Si andava. Si calpestavano erbe alte. Ci si smarriva in tanta selvatica opulenza. Nella molteplicità di quel paesaggio mai noioso, sempre nuovo, fresco se era piovuto, dopo la calura opprimente dell’estate. E foglie. Foglie. Foglie. Che divertimento.

Tornare a casa e scrivere del giardino. E accorgersi d’improvviso di continuare a scrivere di lui. Del loro intimo legame. Perché non farlo se lo si sentiva così fortemente? Se quel paesaggio era sempre così avvincente? Adesso, per esempio. Perché non dire che si era entrati con baldanza nella fiamma ardente del caco per stare nelle sue foglie rosse e viola come braci? Scriverlo sempre con fervore e devozione. Ancora. E ancora. Come Bonnard aveva dipinto Marthe tra le brocche, le tovaglie, le persiane, i tappetini del bagno, i radiatori…385 volte. Senza mai stancarsi.

 

in Gazzetta di Parma, 17 settembre2023