L'equiseto dei campi

L’equiseto dei campi

 

Era uscita di casa apposta per lui. Dopo la lunga siccità dell’inverno dubitava della sua comparsa ma, se c’era, se davvero era riuscito a farcela, a spuntare, il solo posto dove poteva trovarlo era lungo il canale, che benché asciutto da anni e ormai colmo di terra, conservava un’umidità profonda, nascosta.

 

Anche quel giorno faceva così caldo. Così caldo. E il cielo di un bianco uniforme. Infrangibile. Legò ben stretto il fazzoletto in testa perché l’aria era piena di insetti che volavano già ebbri di luce, di vita, di eccitazione, infilò gli stivali, senza dimenticare i guanti da giardino, il falcetto e le cesoie per farsi largo negli intrichi invincibili della vitalba, dei rovi. E la prese larga. Per non imboccare il sentiero dove giorni prima si era imbattuta in un riccio morto, con già le mosche, le vespe, le formiche a prosciugarlo.  Attraversato il campo, era sbucata nel viale pur sapendolo ostruito dal salice spezzato dal vento: la lunga ferita che lo solcava dalla radici alla cima a causa di un grande formicaio, che aveva sfarinato internamente il legno e continuava ad abitarlo, lo aveva reso fragile. E nella caduta aveva trascinato rami di gelso e di noce, e schiacciato un sottobosco di erbe. C’erano momenti in cui non riconosceva quel paesaggio. Dove si trovava? Che posto era  quello? Si spauriva. Le pareva impossibile che il parco fosse diventato quella selva fitta inaccessibile selvatica. Per orientarsi cercava con lo sguardo i vasi di cotto posti sulle alte colonne ai lati del cancello dove si apriva l’ingresso principale alla villa. Quei vasi che si intravedevano tra i rami dei platani erano la sua bussola. Il suo Nord. Bastavano a rincuorarla. La rotta era quella giusta. Non si era persa. Riprendeva ad avanzare. Scavalcando ostacoli. Aggirandoli. Tagliano liane e rovi. Eh, i rovi. Come crescevano bene in quel terreno fresco, ombroso, resistente al freddo più intenso, alla siccità, con che energia, con che vigore ributtavano, che incredibile capacità di ricaccio, che crescita veloce avevano. Di qui il fastidio e la fatica per tutti quei grovigli pungenti in cui doveva aprirsi un varco se voleva raggiungere la riva del canale – un tempo colmo d’acqua scura – dove era avvenuto il loro primo incontro. Che non era stato felice, ricordava. Quel giorno lei e il figlio avevano riportato due ranocchietti trovati la sera prima sotto il portico e tenuti per tutta la notte in un secchiello chiuso da una pietra. E sulla sponda umida e fresca l’equiseto (pianta per lei ancora sconosciuta) le si era presentato con lo stelo cilindrico biancastro percorso da striature brune con in punta un piccolo cono che lo faceva assomigliare a una specie di fungo. Velenoso. E lei li aveva decapitati – erano più di uno – con il bastone che teneva in mano. Che sciocca! Non se lo era mai perdonato. Ancora adesso, a distanza di anni, si vergognava di tanta ignoranza. E si rimproverava. Perché distruggerli? Perché quell’atto di fastidio gratuito trovandoli sul suo cammino? Bastava girarci intorno, no? Invece quel gesto villano. Come imparò in seguito, altro non erano che gli strobili portati dai fusti fertili della pianta che emergevano in primavera e avevano funzione riproduttiva: rilasciavano una miriade di spore mature contenenti in embrione la generazione futura.  Altro che veleno. Quale intima gioia incontrarlo. Quale sorriso.

Era quasi arrivata. Scrutò nel fitto tra le macchie di sole e d’ombra, e le parve di intravederlo. Ma si trattenne dal gioire. Non voleva sbagliarsi. Voleva essere certa che fosse davvero lui. Mosse ancora alcuni passi. Sì, era lui. L’equiseto dei campi. Equisetum arvense. Il nome generico di “coda cavallina” (dal latino equus, cavallo e da saeta, crine) con cui era conosciuto gli si addiceva: i suoi fusti e rametti alludevano davvero alla coda di un cavallo. Lo guardò con commozione mista a un’ammirazione sconfinata: era una delle piante più antiche del mondo. Prima ancora che le altre avessero fiori per attirare gli insetti, avessero polline, avessero semi lui c’era: un fossile vegetale, vecchio, insieme alle felci, di 400 milioni di anni quando equiseti giganteschi e alti come piante popolavano la Terra.

Ritrovato. Anche quell’anno. Sacro. Gli si inginocchiò vicino. Fece scorrere tra le mani gli steli ruvidi, le foglie sottili, rigide come aghi. Lentamente. Più volte. E per pochissimi fortunati attimi sentì nel suo respiro vegetale l’anima della Terra arrivare fino a lei. Senza mediazione.

 

in Gazzetta di Parma, 5 febbraio 2023