L'ombra arriva da

L’ombra arriva da lì

 

 L’ombra arriva da lì, dove la balaustra è crollata, la siepe di bosso è seccata, e l’edera cresce e si espande in una fitta trama vegetale, e trionfa sul cancello scardinato.

 

 

Verso sera, prima ancora di vederla, la sento venire e occupare quell’angolo. Infittirsi. Quando ancora in alto c’è aria danzante. E luce dorata. E tigli con fogliame luccicante. E voli d’uccelli. E tortore che tubano sulla ringhiera del balcone. Ma lei viene. Misteriosa. Non distratta e trattenuta da niente invade il vialetto che attraversa il giardino dove ciuffi d’acanto  e di bardane tropicali crescono sullo strato del pacciame sempre umido. Un tempo, lungo i bordi segnati da formelle grigie crescevano gerbere e giunchiglie e giacinti. I giacinti, viola e rosa, erano quelli che mi piacevano di più. I rosa sembravano sbiaditi. E frivoli. Preferivo i viola. Li ricordavo vegliare la statua del Cristo morto il Venerdì Santo in vasetti di vetro. Ne respiravo il profumo al rosario della sera. Mi stordiva. (Da allora quel profumo è il profumo del Cristo morto, del suo corpo di gesso.) Lungo il vialetto stavano raccolti in piccoli gruppi. Così soli. Così composti. Così silenziosi in mezzo al parlottare invadente degli altri fiori. Delle rose soprattutto. In cespugli ardenti e odorosi dentro le aiuole e lungo il viale d’ingresso alla villa.

L’ombra arriva da lì. E nel giorno che non vuole morire si annida e costruisce il suo pozzo profondo. Non bisogna avvicinarsi. Andare a vedere. O affacciarsi a guardare. Quel buio è come un’acqua che attira. Così seducente. Con quelle schegge di luce danzante. Si potrebbe essere tentati di rispondere. E cadere. Per non tornare mai più.  Vicinissima è la villa chiusa con i muri scrostati. E l’erba che cresce sul selciato e si spinge fin davanti alla porta del salone e della cucina. E le imposte serrate. Sembra abbandonata. Ma dietro i listelli di legno marcio bucati dal picchio ci sono occhi che guardano. Quelli che l’hanno abitata si affollano lì dietro e guardano quello che fai. Ti spiano. Corrono da una finestra all’altra. Fanno le scale volando. Si appostano di nuovo. Ti chiamano. Proprio con il tuo nome. Anna. «Anna, sono qui. Guarda da questa parte.» «Anna, rispondimi.» «Anna, apri la porta e fammi uscire. Voglio respirare l’aria del giardino.» «Anna, oggi sto male. Mi faccio la borsa dell’acqua calda e vado a letto.» «Anna, ho un regalo per te.» Anna. Anna. Riconosco le loro voci. Le inflessioni. Per anni abbiamo vissuto insieme nella villa. Li rivedo. Come camminavano. Parlavano. Mangiavano. Litigavano. Stavano in silenzio. Certe piccole cose. Il cerchietto di tartaruga a fermare i capelli. Il modo con cui stringevano in vita il grembiule e facevano la gala dietro la schiena. La tazza del caffè e latte, il piatto di minestrina, le mele cotte nel forno, la tovaglia sul tavolo della cucina, l’odore del brodo. Le rose fresche sul tavolino delle fotografie nel vasetto d’argento. Quelle finte in inverno. Scolorite. Certi rumori. Il rumore con cui la zia risucchiava la dentiera. Quello degli anelli della Maria che lasciava cadere nella tazzina da caffè quando li sfilava. Quello della sedia sul pavimento quando si alzavano da tavola, o del catenaccio dato al portone, o delle imposte che venivano chiuse. I passi per le scale, lenti o affrettati, e le soste sui pianerottoli. L’odore del borotalco in camera da letto. Della naftalina negli armadi. Ma io non voglio incontrarli. Non voglio andare da loro. Raggiungerli in quell’ombra. Perché è lì che si danno convegno, la sera. E per tutta la notte parlano. Parlano. Mi farebbero tante domande. Sulla vita soprattutto. Cosa potrei rispondere? Rievocherebbero il passato. Inevitabilmente. Esigerebbero delle scuse. E avrebbero ragione. Ho fatto molti sbagli. Ma allora ero giovane. Intransigente. E troppo triste per avere riguardi. Ma li amavo. Li amavo davvero. Tutti. Quante volte avrei voluto abbracciarli. Stringerli. Non se ne sono mai accorti?

Al mattino quel nascondiglio è un posto qualunque. Trafitto dai primi raggi del sole, non fa paura: pilastrini e cimasa si distinguono ancora sotto quella soffocante architettura vegetale. E foglie secche. E per tutto il giorno mantiene la sua aria innocua, inoffensiva. Ma alla sera ho spavento di quel posto dove loro, i morti, si riuniscono lamentosi e remoti. E mentre l’ombra li accoglie con premura compassionevole, io fuggo lontano, mi chiudo in casa. E piango. (E tra le lacrime grido la mia disperazione.)

 

 

in Gazzetta di Parma 20 novembre 2022