Il salotto delle cicale

Il salotto delle cicale

 Come chiacchieravano. Come chiacchieravano. Mai stanche di fare conversazione. Le cicale. Un frinire continuo. Frastornante. Dall’alba fino al buio della notte. Nascoste sui rami e tra le fonde degli olmi e dei noci. E reti dorate tessevano con quel chiacchierio incessante per catturare la luce infuocata del sole, e giocare con le ore che bruciavano come tizzoni ardenti sui campi di terra arida polverosa crepata, e riempire  l’aria di faville incandescenti. Era facile allora per gli incauti che si avventuravano fuori essere sopraffatti da tanta frenesia amorosa, dionisiaca, e cadere in quelle reti da fata morgana.

Bisognava essere prudenti, mantenersi sul filo dell’ombra quando si andava ad aprire il cancello, o a ritirare la posta, o si usciva per la spesa o ancora, colti da un richiamo improvviso, ci si spingeva fino a certi posti trascurati nel parco abbandonato in cerca di frutta selvatica. Sostare in un’ombra leggera di ventaglio traforato, riposare e riprendere fiato mentre ci si guardava intorno per raggiungere l’ombra seguente, non troppo lontana.

Mai però di pomeriggio. Quando era meglio scendere nella piccola stanza, periferica rispetto all’economia domestica della casa, per trovare tregua alla luce, alla soffocante calura che toglievano il fiato. Il pomeriggio era terra di cicale. E di incanti. Che stordivano.

Coricati sul divano con la finestra protetta dalla zanzariera, aperta sul boschetto di bambù mosso appena dall’aria, sulle giovani acacie che riflettevano la luce, sui sambuchi che maturavano le bacche autunnali, ci si consegnava a quel loro frinire, insistente, senza neppure provare a difendersi. E dimentichi del libro scivolato di fianco o sul pavimento ci si addormentava quieti come da bambini in un chiacchierare di donne.  

Nel dormiveglia la stanza mutava in salotto e accoglieva le dame-cicale che si presentavano in abiti ampi e leggeri fluttuanti sopra il panier, la scala di fiocchi sul corsetto aderente e steccato, le maniche con orli decorati da trine e altri fiocchi di seta, le acconciature con fiori e perle, che scivolavano sul lucido parquet calzando scarpini strettissimi, ricamati, il tacco alto e la fibbia ornata di gemme. Come non notare ogni cosa del loro fastoso abbigliamento, e non restarne incantati quando si erano passati anni tra stoffe, figurini, cartamodelli, passamanerie, fili e rocchetti? Come non lasciarsi prendere da quel cicalare allegro e spensierato nella ruelle, che intrecciava le notizie e i pettegolezzi del giorno con storie e racconti di amori e di viaggi, di meraviglie, di fantasie, di fiori e piante mai visti, di profumi, di cascate, di uomini selvaggi, di gioia di vivere…Come si ascoltava volentieri quel dire libero senza la paura e il ridicolo della censura e la farsa della cancellazione, sempre in favore della libertà di pensiero e di espressione. Com’era bello.

Poi d’improvviso tutto cessava: il salottino veniva restituito al silenzio, e nell’ombra che lo invadeva solo qualche scheggia di luce rimandata dal vetro della finestra, dal cristallo dello specchio, e dimenticati sui guéridon appoggiati alla parete i ventagli e i piccoli libri aperti e chiusi le cui storie si erano lette e commentate; e le dame-cicale sciamate in giardino a cercare il primo fresco che si disperdevano lungo i numerosi e incantevoli viali in una specie di labirinto, attraversavano il praticello di muschio protetto dall’erba e disseminato di conchiglie bianche lasciate da bambini ridenti, e sedute sulle altalene sfioravano spensierate quel cielo dalle tinte pastello che si apriva benigno sopra i deliziosi boschetti di lauri, le statue, le fontane, le siepi. Presto sarebbe sopraggiunta l’oscurità, ma la festa non sarebbe terminata, solo mutato aspetto. Il buio e l’aria della notte riempiti di fuochi d’artificio, e mille luci più brillanti delle stelle a precipitare sul parterre, a confondere il fragore della strada, il disordine delle voci, delle grida, delle risa, della musica, dei balli…, a illuminare gli opulenti spuntini allestiti con abbondanza di carni, di vini, di liquori, e la bellezza e prelibatezza dei frutti e delle confetture ed un’infinità di altri cibi deliziosamente sistemati in piramidi di frutta candita. Fino all’alba.

Uscire con fatica da questo luogo incantato. Alzarsi storditi dal divano. Raccogliere le forcine, la fascia per i capelli, il libro. Un foglio sul parquet. Palpita. Una lettera. Una lettera d’amore. Dell’estate. Delle cicale. Se no, di chi altri?

 

in Gazzetta di Parma 17 luglio 2022