Le rovine intorno a casa

Le rovine intorno a casa

 

Le rovine, qui intorno a casa, mi appaiono più o meno rovine a seconda delle stagioni e della luce che le tocca.  Oggi, per esempio, sotto la pioggia violenta del mattino, la balaustra di pietra, che separa il giardino dalla villa abbandonata, si mostra nella sua essenzialità di rovina. Rientrando dal mio giro di perlustrazione mi fermo a guardarla come non l’avessi mai vista prima. In diversi punti i pilastrini sono sospesi, vacillanti e precari perché non più trattenuti dalla cimasa caduta a terra e ricoperta fittamente d’edera e di caprifoglio. A volte, quasi per farla respirare, taglio con le cesoie quelle corde tenaci e libero la pietra che appare pallida, macchiata di verde, ricoperta di licheni, di muschi.

Dietro la balaustra non c’è più la siepe di bosso, che le conferiva, fino a poco tempo fa, uno status di rovina aristocratica. Il bosso cresceva lussureggiante. E antico. Ora che è morto, divorato dalle larve delle piralidi, la balaustra con la cimasa, i pilastrini e lo zoccolo corrosi e sgretolati dalle intemperie, si presentano allo sguardo per quello che sono: rovine malinconiche di un’antica casa signorile, chiusa e trascurata, dai muri scrostati, disabitata da anni, messa in vendita, circondata da un giardino inselvatichito perché nessuno se ne prende più cura. Una storia senza niente di particolare, uguale a tante altre. L’unica differenza è che io amo appassionatamente queste rovine. Le venero.  Come resti della Domus Aurea. Un tempo c’era anche la vite di moscato che affondava le radici nella siepe di bosso, si appoggiava alla balaustra, si distendeva sulla pergola, raggiungeva il muro della villa, e con viticci avventurosi e inarrestabili si spingeva fino alla finestra della camera da letto della Maria. Il letto, posto in un angolo, quasi scompariva perché gran parte della stanza era occupata da un salottino ottocentesco, con un tavolo ovale, due poltrone, un divanetto con sgabellino (così lezioso per i quattro piedini a voluta) ricoperti di un tessuto a grandi rose azzurre e gialle e foglie verdi. Un salottino da casa delle bambole. E in autunno bastava appena sporgersi dal davanzale, allungare la mano per immergerla in quel paesaggio dorato. Fiabesco. Staccare un grappolo d’uva già maturo. Dolce. Caldo.

 

La balaustra e la vite di moscato mi erano così familiari. Le ritrovavo dopo anni identiche a quelle della casa padronale in cui avevo abitato da bambina con i miei genitori e i miei fratelli. Il pergolato si distendeva sopra il cortile interno, e quando l’uva era matura, o quasi matura, infilavo la testa tra i pilastrini della balaustra del terrazzo, e mi sporgevo più che potevo con un lungo bastone diviso sulla cima per tentare di infilare il peduncolo del grappolo, adocchiato in precedenza dal cortile (da lì i grappoli si vedevano meglio), e che dopo una corsa affannosa per le scale (per tenere a mente la collocazione precisa), cercavo di ritrovare da sopra. Una volta agganciato il gambo giravo il bastone piano piano, con delicatezza, fino a staccarlo, e con altrettanta cautela cecavo di portarlo in salvo. Che gioia quando quella preda succosa e ambita approdava pesante e matura nelle mie mani. Tolto il grappolo dal bastone incominciavo subito a gustarlo insieme alla mamma, che mi sgridava se nella fretta, nella bramosia di impossessamene, lo facevo cadere giù in cortile, o avevo «sbagliato» grappolo e gli acini si rivelano aspri, acerbi, immangiabili.

In estate, sopra quella parte di balaustra ancora in piedi, i gatti si distendono e dormono per lunghi pomeriggi nell’ombra del caprifoglio, o scrutano i davanzali delle finestre dove i piccioni hanno i loro nidi, e tubano.

Ci sono giorni in cui le rovine sembrano chiamarmi. Estate. O inverno. Luce. O pioggia. Insistentemente. Subito le raggiungo. Anche in grembiule e ciabatte. Mi seggo sulla cimasa caduta a terra, i piedi nell’edera. E il passato ritorna. E si confonde con l’oggi. Si intrecciano anni lontani. Ombre s’avvicendano: la domestica che scopa le foglie cadute davanti all’ingresso della cucina; la Maria che scuote la tovaglia dalle briciole; la zia Betty seduta sulla panchina di cemento addossata al muro intenta a sorvegliare un bambino bellissimo e ridente che insegue i gatti con una paletta rossa; e in disparte ci sono io che guardo mio figlio e sorrido appoggiata alla balaustra. Stare seduta in mezzo alle rovine mi acquieta. Mi conforta. Non devo parlare. Sollecitare. Ma stare lì. Con loro. Le rovine hanno memoria.

 

 

in Gazzetta di Parma, 22 maggio 2022Le rovine intorno a casa