La vecchia con il machete
La vecchia con il machete
Aveva sentito delle voci e delle risa dietro le spalle. Si era girata. Un gruppo di ragazzi stava risalendo la strada. Non più di una decina, le era sembrato. Adesso, fermi e con le braccia uno sulle spalle dell’altro, si erano piegati, per quanto poteva immaginare, a guardare lo schermo di un telefonino. E un nuovo alto scoppio di risa era seguito a quel breve momento di silenzio. L’intreccio dei corpi si era sciolto, disperso come un soffione di tarassaco investito dal vento. Poi, sempre chiacchierando e ridendo, e con una certa indolenza nel passo, avevano ripreso ad avanzare lungo il marciapiede e la pista ciclabile. E lei era tornata ad aprirsi un varco con il machete nella sterpaglia secca e pungente che riempiva il canale.
Il machete da giardino, che il figlio usava per tagliare i rami secchi degli alberi, era l’attrezzo giusto. Davvero quello che serviva non solo per recidere quel groviglio di cardi, di rovi, di germogli, ma soprattutto per liberare l’olmo – ancora poco e l’avrebbe raggiunto – dall’edera che lo stava soffocando. Subdola silenziosa tenace già si avviluppava strettamente al tronco, e senza difficoltà sarebbe arrivata ai rami, ben presto alla cima.
Perché aveva aspettato così tanto? si chiedeva mentre finalmente faceva scorrere la lama del machete affilata e lucente, lungo le foglie dell’edera, dall’alto verso il basso. In questo modo, messi a nudo i fusti grigi con le numerosissime radici avventizie aderenti al tronco, compenetrate quasi alla corteccia, con colpi secchi dati di traverso, li recideva in più punti. E dove apparivano particolarmente grossi e nodosi, non solo sferrava quei colpi con forza stringendo il machete con entrambe le mani, ma ci metteva anche una buona dose di rabbia. A non intervenire, a lasciarla andare, l’albero ben presto sarebbe morto. Sentì più vicine le voci e le risa dei ragazzi. Istintivamente si accucciò. Li guardò attraverso gli arbusti. Non erano lontani. Notò che le risa, con quel che di isterico e di violento che ci covava dentro, dopo brevi confabulazioni e intervalli di silenzio, si ripetevano con frequenza. L’attraversò un brivido di paura. Si guardò intorno per cercare una via di fuga. Non c’era. A stento sarebbe riuscita a scavalcare la rete alta, arrugginita e ancora ben tesa che passava dietro l’olmo, e fingere indifferenza ripercorrendo il cammino inverso da dove era venuta o continuare il lavoro intrapreso voleva dire esporsi allo sguardo ironico e beffardo del gruppo. Era certa che i ragazzi si sarebbero fermati a guardare quella contadina che ripuliva il canale con un machete. Proprio l’incongruenza di quel lungo e pesante coltello brandito dalle sue mani di vecchia li avrebbe incuriositi scatenando battute e risa di scherno. E il resto che sarebbe seguito. Non sapeva cosa di preciso. Ma la situazione si prestava, offriva la preda e il branco perché qualcosa di buio, di pauroso, di violento potesse accadere. Si sentì braccata. Tolse il fazzoletto rosso che raccoglieva i capelli (era una macchia di colore che poteva attirare l’attenzione) e si buttò in mezzo alla sterpaglia e ai rifiuti lanciati dal finestrino dagli automobilisti di passaggio. Non doveva farsi vedere. Così raggomitolata, le ginocchia contro la bocca, la lama del machete contro la guancia, sentiva la sua angoscia crescere man mano che i passi, le risa, le voci si avvicinavo. Quel parlottare. Quello scalpiccìo. Quel fermarsi. Quei brevi intervalli di silenzio. Gli scoppi della risa che seguivano. Il loro ripetersi. Il farsi più vicino. Più vicino. Ecco. Quando aveva sentito i ragazzi passare sopra la sua testa, aveva chiuso gli occhi, stretto ancor più nervosamente il manico del machete, trattenuto il respiro. Solo il pulsare del sangue alla tempia. Poi il riprendere fiato, l’odore della terra secca e dell’amaro dell’edera tagliata, il rumore rassicurante di una macchina che passava. Di un’altra. Aprì gli occhi. Tese l’orecchio. Il calpestio le parve smorzato, le voci affievolite, le risate sbiadite. Qualche brusìo ancora, ogni tanto, come di moscone dietro il vetro. Riscuotendosi da quell’immobilità di minerale si sollevò cautamente. Guardò la strada attraverso l’intrico degli arbusti. Il branco aveva già oltrepassato la rotonda, stava girando a destra, ancora qualche passo e sarebbe scomparso dietro le prime case del quartiere nuovo. Non c’era più pericolo. Si avvicinò all’albero. Lasciò cadere il machete ai suoi piedi. Abbracciata al suo tronco incominciò a piangere.
in Gazzetta di Parma, La vecchia con il machete, 21/11/2021