Labirinto domestico

 

Labirinto domestico

 

Se ne sarebbe andata? Avrebbe lasciato la casa? C’erano giorni in cui faceva fatica a viverci, si sentiva un’estranea, un’ospite poco gradita. Soffocava nel suo chiuso perimetro.

Si affacciava alla finestra. Guardava i gatti coricati sul selciato, sulla balaustra, indolenti e pigri al sole. Le siepi di bosso così ordinate. Le ombre. Ascoltava il vento tra le fronde degli alberi. Era bello. Lì c’era tutto. E non doveva parlare. Non doveva muoversi. Si immaginava statua di pietra in quel giardino ombroso e umido. Macchiata di licheni. I piedi affondati nel muschio. Muschio tra le dita dei piedi. Stare in quella immobilità e in quel silenzio era la sua dimensione. Quella vera. Autentica. Si sentiva leggera. Mondi le si aprivano in quel cielo azzurro, tiepido. Parole d’amore portava l’aria.

Si riscuoteva. Devo preparami qualcosa da mangiare. La fame mi distrae. In cucina apparecchiava. Il piatto. Il bicchiere. Il pane. Preparava un cibo qualsiasi. Facile. Mangiava in silenzio. Lentamente. Come aveva imparato nel grande bianco refettorio del collegio dove si sentiva solamente il rumore appena accennato delle posate sul piatto, inevitabile dal momento che le giovani collegiali erano più di cento.  La minestra era acquosa. La pastina aveva la forma delle lettere maiuscole dell’alfabeto, poche cucchiate e già era finita. Lei provava a farla durare cercando nel brodo le lettere del suo nome per comporlo sull’orlo del piatto. A N N A. Mangiarlo per ultimo. Mangiare il proprio nome. Mangiarsi. Nutrirsi di se stessi. Ecco cosa era la sua scrittura. Allora non lo sapeva ancora. Conosceva però la fame e i suoi artigli sfoderati; la fame che non si placava con le tre fette trasparenti di salame che seguivano la pastina in brodo e la mela mangiata con il pane. Aveva sempre fame. Era seccante avere un corpo. Perché non doveva bastare un bicchiere d’acqua? Un pezzo di pane rubato dal sacco dove veniva gettato quello avanzato e raccolto dai tavoli? Mangiare come le sante. Le mistiche. Che si nutrivano solo di Dio. Come lei della sua scrittura. Il fastidio della fame e del mangiare le era rimasto. (Punire il proprio corpo. Ma perché?) A volte proprio non sopportava la cucina dove avvenivano le misteriose alchimie dei sughi, degli arrosti, dei bolliti, delle paste al forno, delle frittate. Anche se c’era qualcosa di affascinante nella mutazione degli elementi. Qualcosa di alchemico. Che lei però non voleva conoscere (la madre era un’ottima cuoca), e ne stava lontana, non osava avvicinarsi, e respingeva.

Altre volte invece la luce del giorno non le diceva niente. Anzi, la infastidiva. La trovava ordinaria. Senza qualità. Faticosa. La bellezza del giardino l’intimoriva. Girava per le stanze. Un labirinto senza segreti. Saliva nello studio. La sua tana. Stava nel disordine della stanza circondata da libri quaderni giornali; le sembrava che solo in quel disordine di carta potesse nascondersi. Fare perdere le sue tracce. Essere libera di pensare. Le intuizioni migliori le venivano esplorando quella muta stratificazione: leggeva, sottolineava, ritagliava, incollava. Scriveva.

Quando non riusciva a lavorare si sdraiava per terra. Le dava sicurezza il contatto con il pavimento. Era un punto fermo.

Le pareti dello studio non erano più bianche come all’inizio quando erano state appena tinteggiate, ma opache per la polvere, e le ragnatele negli angoli scuri. Sorrideva al ricordo di se stessa quando tanti anni prima, entrata in quella casa, voleva dipingere a trompe-l’oeil la scala che dall’ ingresso portava al primo piano sfruttando la luce che entrava da un’alta finestra. Erbe e viole e margherite sotto un cielo teneramente chiaro. Rami di acacia con grappoli di fiori color avorio. Uccelli in volo e farfalle. La scala doveva trasformarsi in un sentiero che si inoltrava in un giardino paradisiaco. In cucina invece sarebbe bastato tratteggiare un vaso di cotto con un alberello di limoni appoggiato a un davanzale fittizio. Adesso quel sogno le appariva ridicolo. Il desiderio ingenuo di una bambina.

(C’era sul cassettone la fotografia della sua Prima Comunione con la madrina in tailleur e cappello e guanti. E lei vestita come una principessa con un abito di raso lungo fino ai piedi sontuoso, cucito dalla madre. Con la cuffietta e il velo e il libricino di madreperla tra le mani giunte, le labbra serrate a trattenere un sorriso. Perché trattenerlo? Si domandava ogni volta che guardava o pensava se stessa in quella fotografia.  Perché non mostrare la felicità che aveva provato fin dal mattino quando la madre l’aveva lavata e vestita. Osservando bene però, gli occhi tradivano l’intima felicità di quella bambina, la bambina che era stata. Andandosene da casa l’avrebbe portata con sé. Non l’ avrebbe  abbandonata. L’amava.)

Ma era bastato un tempo davvero breve per rendersi conto che la casa che immaginava (la casa delle fate?) altro non era che l’espressione di un desiderio infantile e che tutta la sua forza, il suo coraggio bastavano appena per opporsi all’indifferenza. Al disamore. Alla dimenticanza. Per restare in vita.

Sentiva sotto i polpastrelli la polvere del parquet, la ruvidità del tappeto. Immobile in quel silenzio le sembrava di percepire il lavorio dei tarli nel legno dei mobili, ne scopriva le tracce nel legno sfarinato come la sabbia finissima che fluiva nella clessidra del tempo. Il Tempo. Niente sarebbe rimasto. Non solo della sua piccola vita. Ma anziché dolore la consapevolezza di quel nulla le infondeva una rassegnazione dolce. Provava gratitudine per quel tempo che tutto avrebbe corroso, trasformato, sepolto, divorato, inghiottito, cancellato. Deserti. Dune di sabbia in movimento perenne. Lei non ci sarebbe più stata. Ossa frantumate sotto gli zoccoli del tempo.

E il bisbigliare continuo delle cose intorno. La loro presenza. Il fastidio che le procuravano le cose. Non solo dello studio. La noia di tutte le cose che affollavano la casa. Gli armadi nella camera da letto che intravedeva dalla porta aperta, per esempio. Aprire gli armadi era diventato pauroso. Cercare, frugare, sostituire, togliere, rimettere, incellofanare. Riporre. Cappotti, gonne, abiti, maglioni. Scendere in quella miniera in disuso. Gli abiti come pipistrelli appesi a testa in giù, addormentati nel loro grigio bozzolo di plastica. (Dov’era finita la camicetta color malva con il fiocco? E il tailleur nero con i bottoni gioiello? E la spilla a canestro con fiori traboccanti perché non era nel cofanetto?) Scavare. Rimescolare terra morta. Terra secca. Buttare tutto all’aria. Arrendersi. Meglio fuggire. Si immaginava vagabondare per le strade della città infagottata, stracciata, disadorna, una barbona con le sue sporte di carta, i suoi libri sgualciti e unti, i suoi giornali vecchi e stropicciati raccatati qui e là per la strada, i suoi pezzi di pane. Finalmente libera. Ma lo sarebbe stata davvero? Ne dubitava. No. Non sarebbe stato così. Ne era certa. L’unica libertà che le sarebbe stata data era quella di morire. In qualche chiesa. Rannicchiata tra i banchi, dietro a qualche altare nascosto, umido e buio. Povera vecchia.

Per eludere quel senso di sconfitta irrimediabile che certi giorni si sentiva addosso, che come un parassita si nutriva di lei, del suo sangue, cercava una via di fuga fissando lo sguardo su un’antica tela dell’Ottocento appesa alla parete, rischiarata dalla luce che entrava dalla finestra. Dove una Venere nuda rosa e opulenta sedeva su una barca che solcava il mare tirata da delfini e Tritoni, e Marte, al suo fianco, che le indicava un palazzo sull’isola che stavano per raggiungere e dove avrebbero alloggiato sontuosamente, e fatto l’amore con desiderio incontrollato. Questo suggeriva il quadro. Ma era il mare a piacerle. Quel mare le dava conforto. Per questo lo cercava. Mai la deludeva. La vastità di quel mare. Tuffarsi in quel mare. Nuotare. Nuotare fino a quell’isola. Coricarsi sulla sabbia, asciugarsi al sole. Conchiglia di madreperla che proteggeva il mollusco del cuore, e custodiva il rumore eterno del mare. Chiudeva gli occhi. Si assopiva con il rombo del mare nelle orecchie.

Quando si riscuoteva da quel torpore la luce nella stanza era cambiata. Ombre si annidavano negli angoli. Le si affollavano intorno come una fresca brezza. Si alzava. Intorpidita, ma non più così triste. Sentiva, intimamente, di aver abbandonato quel luogo di desolazione e di infelicità. Quel labirinto domestico dove aveva vagato smarrita per gran parte del giorno non le creava più turbamento. Andava alla finestra. Il giardino, in basso, aveva corridoi bui tra le siepi, ma in alto, in quel golfo racchiuso tra le fronde dei tigli e degli olmi, il cielo le comunicava un senso di calma e di serenità come un mare in bonaccia, lo stesso mare che l’aveva portata fino lì, cullandola. Allora, riconoscente, si inginocchiava davanti a quello che vi era di meraviglioso e di misterioso in quel cielo. In  quella vita. Che non cessava di stupirla. E che era la sua.

 

in ALI (Associazione Liberi Incisori) n.30, 2021-  Labirinto, dal carcere al piacere