La pazienza degli alberi
La pazienza degli alberi
Piove a dirotto. Pozzanghere si formano sul selciato e sul ghiaietto del giardino. I rami tagliati dei gelsi e dei pruni selvatici – aloni giallo chiari alla fine del tronco scuro esposti alla pioggia battente si lavano, si purificano anche se sembrano ancor più sofferenti, moncherini che si tendono verso il cielo, muti. Odio la mano che li ha potati. Una mano incapace di amore, di dolcezza. A guardarli provo una sofferenza acuta, profonda. Sul lungo ramo di gelso ricurvo, concavo che poggiava a terra – ora tagliato irrimediabilmente – mi coricavo quando correvo fuori di casa con un grumo di pianto conficcato in gola a soffocare i lamenti della mia paura.
La mia guancia toccava il ruvido tronco. Respiravo con un respiro tenue, appena percettibile, un buon odore di legno, di corteccia. Quel contatto, come una carezza, era meglio di tutte le parole. Volevo dimenticare le parole. Ne avevo ascoltate troppe. Avevo paura di loro. Parole di morte. E numeri velenosi. E immagini sconvolgenti. (Come dimenticare gli autocarri militari in fila a decine per trasportare le bare dei morti falciati dal Covid-19?) Gli alberi sono i miei amici. Non ne ho altri. Loro sono sinceri. Le persone usano troppe parole. Dicono troppe banalità. Allarmano. Non acquietano. Non sanno consolare. Il loro modo di consolare non mi consola. Io non voglio la loro consolazione. Vado dagli alberi. Solo loro sono capaci di farlo. Ammiro la loro sconfinata pazienza. La loro bontà. Fino a ieri, quando esisteva ancora, stavo nel mio tronco-culla a guardare il cielo che si intravedeva attraverso le foglie. E qualcosa dentro me lentamente si scioglieva, si sfaceva. Piangevo un pianto silenzioso, muto. Le sirene delle autoambulanze che tagliavano il silenzio irreale che ricopriva la città come un mantello nero, soffocante. Il rombo degli elicotteri che si avvicinava, si avvicinava, e poi eccoli, gli elicotteri, sbucare d’improvviso da sopra le fronde dei tigli e attraversare l’immobilità dell’azzurro con le pale che vorticavano come ali di cavallette giganti. La via Emilia ridotta a un viottolo di campagna. La musica che proveniva dai balconi delle case del quartiere che anziché gioia comunicava una tristezza infinita. Le chiese chiuse dove non si poteva entrare. Dimenticavo tutto questo. E stavo meglio.
Il giorno prima che piovesse avevo visto un uomo aggirarsi nel parco abbandonato, andare con passo deciso, gli alti stivali di gomma, la testa calva, la motosega a spalla, la roncola agganciata alla cintura. L’ho seguito da una finestra all’altra della casa. Quando è sparito alla vista, sono uscita, e gli sono andata dietro continuando a spiarlo da lontano. Ogni tanto scompariva. Lo perdevo. Dov’era andato? Forse era venuto solo per dare un’occhiata in giro, mandato senza dubbio dal proprietario, che aveva messo in vendita la villa con il parco e il viale che portava la cancello, a controllare. Forse, mi dicevo, quell’uomo che ogni tanto compariva, lo stesso di sempre e che avevo riconosciuto, non avrebbe fatto altro che tagliare i rami secchi caduti per il vento, risollevare i paletti della siepe lungo la strada, raccogliere le lattine, le carte, le bottiglie che la gente passando lanciava nel parco. Forse quella primavera non avrebbe più potato così drasticamente gli alberi. I cespugli delle rose fino a terra. Dato il veleno intorno alla fontana perché l’erba non crescesse, la vitalba non attecchisse. Così che il muschio avrebbe continuato a splendere nell’ombra e le ortiche a nutrire le vanesse di settembre. E l’edera, i lunghi festoni d’edera avrebbero oscillato al vento, all’aria. Ma no. M’ingannavo. Lui cammina da padrone nel parco incolto. Ecco che si ferma. E taglia. Il rumore della motosega è un urlo di guerra. Affila la roncola con la cote che estrae dal corno di bue appeso alla cintura, e taglia. Anche lui semina morte. Mi addolorano i rami tagliati, sangue vegetale che cola, ferite aperte, lentissime a rimarginare – a guarire. E ai piedi dell’albero i rami caduti tra la segatura chiara, le bruciature nell’erba lasciate dalla miscela della motosega, il sottobosco devastato. Perché illudersi che non sarebbe più successo? Che quella precedente all’attuale sarebbe stata l’ultima volta e che poi erbe e piante sarebbero nate, cresciute, ricresciute, seccate secondo il loro ritmo? Perché questa ingenuità di bambina?
Ripenso agli alberi tagliati mentre davanti alla finestra cucio la fodera di una giacca che, sfilacciata, dava un senso di negligenza e di disordine. Potrei davvero fare a meno di farlo. Non la indosserò per andare in città. Non si può. E per quando lo si potrà fare sarà troppo pesante. Inoltre non mi è mai piaciuto cucire. Ci hanno provato in tanti. Mia madre sarta, per prima. Sotto il suo insegnamento, la sua guida sicura imbastivo, facevo orli, attaccavo cerniere e bottoni, facevo occhielli. Poi le suore in collegio. Conservo un album con campioncini di cucito e di ricamo. Commoventi nel loro ordine, nella loro precisione. Da ultimo mia suocera. Quel ricordo che mai si cancellerà. Mi aveva portato da rammendare alcune calze del figlio “puoi rammendarle seduta davanti alla televisione” aveva detto lasciandomi un cestino con le calze e l’uovo di legno per facilitare il lavoro. Quando se ne era andata avevo aperto lo sportello della stufa e le avevo gettate nel fuoco. Ma l’uovo di legno chiaro, levigato come un sasso dall’acqua, lucido, bello l’avevo tenuto. Mi vergogno ancora di aver tenuto quel comportamento sprezzante. Davvero stupido.
Quando non posso uscire, come adesso che piove, e andare dagli alberi, mi seggo davanti alla finestra e cucio. Non solo quello che serve al momento: un bottone staccato, l’orlo di una gonna, il pizzo di una federa, l’asola di un asciugamano. Ho cercato indumenti riposti negli armadi, nei cassetti senza molta cura. Li ho tirati fuori. Uno alla volta li passo in rassegna. Minuziosamente. Cerco i piccoli buchi sotto le ascelle di un maglione, la sfilacciatura di una maglietta, o nel collo di una camicia, ai polsini. I buchi nelle calze li rammendo con l’uovo di legno. Ho trovato nel baule canovacci da ricamare a punto croce, un punto facile, che mai avrei pensato di prendere in mano e di finire (anche questo era un regalo di mia suocera dal ritorno dalla vacanza in montagna), e relegati il più lontano possibile dalla vista per quei motivi così leziosi : pastorella con cappello di paglia e cestino di fiori, pastorella sul ponticello di legno, pastorella con capretta, pastorella e pastorello che si tengono per mano e sembrano cantare… avvolti nella loro carta originale con le loro matassine brillanti, ancora intatte. Ho iniziato a ricamare con gioia. Non so cosa ne farò. Forse niente. Ma non è questo che conta. Mi piace passare l’ago nella tela e seguire il disegno. Mi sono accorta che non perdo assolutamente tempo a fare questa cosa così ordinaria, questa cosa che ho sempre detestato. Cucire mi aiuta ad arginare l’ansia di questi giorni quando, chiusa in casa, la sento salire come il livello di un fiume in piena che rischia di travolgermi. Assorta nel lavoro cucio per arginare il mio turbamento interiore. Lo faccio con precisione. Con dedizione. Punti uguali, piccoli, perfetti – proprio come devono essere. Cucire è come scrivere. Punto dopo punto. Parola dopo parola. Alla fine, con un orlo ben fatto, la pastorella si troverà imprigionata in uno strofinaccio da cucina. O, come me, in una pagina scritta.
Quando sono stanca depongo ago ditale e forbici. Sollevo la testa e guardo questo angolo di giardino, lo accarezzo con gli occhi. Questo verde rigoglioso e trascurato. Questo verde incolto e selvaggio allevia la mia solitudine. Se sono ancora qui, se sono ancora viva, lo devo principalmente a lui, al giardino. Ci sono merli che saltellano nell’erba bagnata vicino al glicine fiorito e ai rami teneri di un sambuco, muovono la testa di qui e di là, beccano rapidi, rigidi come uccelli meccanici, volano sui rami della tuia. Mi piace quando cantano. Hanno infinite melodie. Sono allegri. Qualche volta sorprendo anche la ghiandaia vicino alle ortensie. Domenica c’era il sole. Io sono uscita a cercare un posto tra le piante. Mi serve un nuovo rifugio dopo che il mio ramo-culla è stato tagliato. Lo voglio aperto, ricettivo e nello stesso tempo riparato, come una stanza, nascosto agli occhi delle persone che possono avvicinarsi, ma non ai miei che invece devono seguire ogni loro movimento, ogni loro spostamento. Deve essere silenzioso. Perché il rumore dei camion e delle macchine che hanno ripreso a viaggiare – il confinamento è meno rigido – arriva di nuovo con fragore. Mi sembra di averlo trovato a ridosso della vecchia catasta di legna protetta dal lauro ceraso e dalla serenella fiorita. Devo accertarmene. Senza inquietudine mi coricherò nell’erba. Mi addormenterò nel tepore del sole. Nel respiro del verde. Anna, non morire.
in Noi siamo respiro, eBook edito da Diabasis, giugno 2020; in Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, sez. Scrivere di sé ai tempi del coronavirus