Il bollitore luccicante e il canto del cucù

Il bollitore luccicante e il canto del cucù

 

 Pulisci tu quell’angolo della cucina. E il rivestimento di piastrelle. Sposta il fornello e il mobiletto delle spezie. Non farlo fare alla donna a ore. Fallo tu. Adesso. Mentre aspetti la telefonata che ti ferirà. Del resto, non puoi fare altro. Non leggere. Non scrivere. Non sei abbastanza tranquilla per farlo. Non puoi sfuggire a quella telefonata. Mentre aspetti, pulisci. Non è una perdita di tempo.

 Così si incoraggiava. Dalla grande finestra aperta sul giardino entrava, non cancellato dalla pioggia, un leggero profumo di filadelfo. E cielo azzurro. E verde luminoso. Ah, poter uscire e godere di quel pomeriggio vicino al cespuglio delle rose centifolia. Non c’erano ancora zanzare. Non doveva pensarci. Infilare i guanti. Miscelare acqua calda e bicarbonato (non usare solventi, compiere un piccolo gesto ecologico) per rimuovere lo sporco. Spostare con attenzione la cucina a gas. Il mobiletto delle spezie. Togliere gli utensili dalla barra d’acciaio. “Prendere visione” dello sporcizia che si era formata. Senza sorpresa, del resto. Ogni anno quel lavoro era da fare. Ci finiva di tutto lì dietro. Principalmente pasta, farfalle, mezze penne, fusilli. Qualche noce con cui aveva fatto giocare il gatto, il tappo dell’olio sfuggito di mano, i batuffoli di lanugine, sostituire il vecchio fondo di caffè (sempre per privilegiare la soluzione ecologica a quella chimica) sparso appositamente per arrestare, e confondere, l’invasione delle formiche. Persino una piccola ragnatela. Lavare bene. Togliere il velo di grasso dalle piastrelle. Sciacquare. Asciugare. Per fortuna c’era quella luce là fuori. Quel tepore. Quel profumo. Che accompagnava. Ci si sentiva meno soli. Meno in balia delle cose. Fa’ presto, poi uscirai. E la telefonata? Richiameranno. Se vogliono parlarti. Vai avanti a pulire. Tocca al mobiletto adesso. Palline di ginepro, di pepe, zucchero a velo da una bustina aperta, zafferano, origano. Bene. Cucù cucù. Il cuculo. C’era anche lui in quel beato giorno di primavera. Cucù cucù. A volte era ancora a letto e già lo sentiva. Le metteva allegria ascoltarlo. E ricordando Orietta Berti incominciava a canticchiare la nota canzone “cucù cucù l’aprile non c’è più è ritornato maggio al canto del cucù cucù ”.La telefonata tardava. Rimettere a posto ogni cosa. Il bollitore luccicante (così decorativo) sul fornello come nelle riviste di design. Cucù cucù. Non smetteva di lanciare il suo richiamo, il cuculo. Sembrava chiamarla. Buttare l’acqua, la carta assorbente. Lavare le spugne. Scopare. Ecco il telefono. Finalmente. Rispondere. Affrontare quella conversazione con la stessa determinazione con cui aveva tolto lo sporco da quell’angolo nascosto della cucina. Si sentiva pronta. Rimuovere il non detto di tanti anni. Come macchie di unto, appunto. Da quella piega nascosta della coscienza. Coraggio. Poi uscirai. E sarà lo spensierato ritornello: Cucù cucù, l’inverno l’è passato la neve non c’è più è ritornato il sole al canto del cucù cucù.

 

in Gazzetta di Parma, 10 maggio 2020