Cimeli di Maria Luisa d’Austria al Castello di Fontanellato

 

Spalancavo le imposte di quella piccola stanza e la luce entrava irruente dalla finestra e cadeva sul vetro della bacheca dove erano conservati, e lo sono tuttora, oggetti appartenenti a Maria Luisa d’Austria duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla.

Era una luce impietosa (come sempre lo è la luce troppo forte) che mostrava in tutta la loro povertà quei ricordi conservati con devoto amore filiale da Albertina Maria figlia della duchessa e del conte Adamo Alberto Neipperg (in italiano Montenovo, un espediente questo usato sia per la figlia che per il figlio Guglielmo dal momento che alla loro nascita Maria Luisa d’Asburgo risultava ancora sposata con Napoleone Bonaparte) e andata sposa a sedici anni al conte Luigi Sanvitale. Il matrimonio dava una posizione sociale legittima alla giovane e risollevava economicamente, grazie alla cospicua dote che portava, le sorti della famiglia Sanvitale. Tutte queste informazioni risultano    pedanti, immagino, ma io allora facevo la guida turistica, oltre che la bibliotecaria, al Castello di Fontanellato e mi sembrava doveroso informarne i visitatori. Ben presto mi ero accorta che quel paio di guanti in velo, quell’ombrellino, quelle scarpette da ballo, quel ventaglio, quelle tre berrette …esercitavano un’attrazione particolare sui turisti, che li osservavano a lungo incuriositi, piegati sul vetro, se li indicavano l’un l’altro bisbigliando tra loro, come in chiesa. E mi chiedevano se, per favore, potevo aprire le imposte della finestra per vedere meglio. “C’è poca luce” dicevano – “non si vede bene.” Avevano ragione. Soprattutto in estate, tenevo sempre le imposte socchiuse, fermate con il gancio. La penombra che si creava nella saletta mi sembrava più indicata per quel memento mori del tutto involontario, che nasceva dall’accostamento di quegli effimeri oggetti e delle maschere funebri, che sempre nella bacheca trovavano posto, della duchessa, in gesso, e del Neipperg, in cera, che un tessuto verde increspato avvolgeva e sembrava proteggere. Spalancavo le imposte, come ho detto, e la luce, che si riversava dentro, cancellava d’un tratto ogni intimità, spogliava quegli oggetti del loro fascino. Uscivo dalla stanza. Li lasciavo all’ammirazione dei turisti. Camminavo lungo la passatoia senza fare alcun rumore, attraversavo la Sala del bigliardo, la Sala di musica, la Camera da letto, arrivavo fino alla Galleria degli antenati, tornavo indietro. Mi affacciavo discreta alla stanza. Li trovavo ancora piegati sulla bacheca intenti ad osservare quelle reliquie da ogni angolazione, affascinati. Sedotti. Mi chiedevano altro tempo. Se non c’erano turisti in attesa giù nel cortile (avevo guardato da una finestra della Sala degli antenati) glielo accordavo. Uscivo di nuovo per stare al riparo da quell’adorazione che non condividevo. Cos’erano mai, non solo quelle tre berrette fatte all’uncinetto ma tutto il resto dei piccoli lavori di tappezzeria, il confezionamento di fiori di stoffa, la creazione di borsettine per gli spiccioli, le pantofole usciti dalla operose mani di Maria Luigia (questa la forma preferita dai parmigiani) conservati al Museo Glauco Lombardi  al confronto con i ricami, con gli elaborati colletti di pizzo bianco ideati da lei stessa (inventando anche lo stesso punto che porta il suo nome), che spiccavano sui suoi abiti neri di Caterina de’ Medici? Cos’erano mai rispetto ai chilometri di arazzi, di pizzi, di tessuti preziosi, una festa di colori e di gusto squisito, eseguiti da Maria Stuarda? E la nota polemica, che dentro me non sapevo zittire, insorgeva con ancor più vigore davanti al calco in gesso delle piccole mani della duchessa: davvero sempre così occupate quelle petites mains, sempre così attive, che mai avevano trovato il tempo di rispondere alle lettere di Napoleone, davvero mai una riposta a quel “Dite all’imperatrice che l’imperatore attende impaziente sue notizie “, mai una parola ricevette quel pover’uomo da lei, dalla sua sposa, confinato nella tristezza dell’isola d’Elba o nella palude di Sant’Elena dove aveva incominciato a morire fin dal primo giorno. Invece con che sollecitudine scriveva al Neipperg “Sono soltanto tre giorni che siete partito…e in questi tre giorni ho rimpianto spesso la vostra assenza. Così ho apprezzato quanto mi siete prezioso, quanto mi mancate quando siete lontano da me…Perché non siete qui, mio caro Alberto, per prodigarmi i vostri dolci conforti? “(Ah, il Metternich, che aveva giocato la pedina Niepperg per allontanarla dalla corte di Vienna, sì, che la conosceva bene.)

 Appoggiata al davanzale di una finestra, attraverso le stecche delle imposte guardavo il fossato, gli archi colmi d’ombra leggera del borgo circostante. C’era un silenzio in quei vasti, splendenti pomeriggi estivi. Un silenzio che stringeva il Castello d’intorno come un assedio. E il Tempo che sgocciolava lento, invisibile. Ma io lo sentivo. E proprio perché lo sentivo – e allora non ne avevo paura – mi piaceva vagare in quelle stanze. Incontrarlo. Concreto. Reale. Se mi sedevo su una di quelle antiche sedie, o sullo spigolo di una cassapanca, lo sentivo scorrere quieto ai miei piedi, o girarmi intorno come un’acqua avvolge una pietra. E lo scorpione (ce n’era più di uno) che a volte usciva da sotto un quadro, girovagava sulla parete o se ne stava immobile sul soffitto dove si riflettevano le luci rimandate dall’acqua del fossato colpita dal sole, mi turbava appena. Come rispondendo a un richiamo andavo sulla terrazza. Mi affacciavo. Respiravo l’odore dell’acqua. E guardando in giù nel verde melmoso vedevo le carpe, grandi fameliche vecchie (alcune portavano sul dorso tra le squame i segni di antiche ferite, dell’amo che si era conficcato e da cui, dibattendosi, si erano liberate) tendere agguati ai piccioni che scendevano ad abbeverarsi. E in quel silenzio invincibile il tubare reiterato e opaco delle tortore; e le ore suonate dalla torre dell’orologio sospese come piume nell’aria immota e satura di luce.  

Quando tornavo la saletta era deserta. Accostavo le imposte. La penombra calava come un sipario al termine della rappresentazione. Una consolazione per quelle povere cose. Riposavano. Io mi affrettavo a raggiungere i turisti.

 

in  Parma­ –  I narratori raccontano la loro città, Parma, Diabasis, 2019