La frutta più buona

La frutta più buona

 

La frutta più buona era quella delle nature morte. Oltre che più bella. Ne era convinta. Le mele, le pere, le albicocche, le pesche, le ciliegie…insomma la frutta che comprava al supermercato si rivelava, all’assaggio, deludente: non aveva sapore. Rare volte, miracolosamente, si avvertiva in quella polpa algida e compatta un lieve, appena accennato, pressoché impercettibile saporino dolce, del tutto insignificante, senza personalità, e senza dubbio più illusorio che reale tanto se ne andava in fretta.

 

Negozi di frutta “buona” (più cara, certo, ma anche più gustosa e golosa) esistevano ma troppo lontano da casa per poterli frequentare con una certa regolarità, così quella frutta si aggiungeva alla spesa settimanale. Che tristezza però.

Fino a poco tempo prima (prima dell’incendio, prima delle ruspe),in estate, bastava uscire di casa, e andare in certi posti ben noti del giardino, coglierla e mangiarla sul posto. Senza sbucciarla. Senza lavarla. (Al mattino la buccia rugiadosa, la polpa fresca, calda e profumata di sole al pomeriggio, e contenderla sempre agli uccelli, alle api, alle farfalle.) Per esempio, vicino alle rose c’era una pianta di pere butirro (di gaddiana memoria) dalla polpa tenera e soda ad un tempo; in mezzo alla siepe di bosso una pianta di pesche a polpa bianca (come quelle che comprava il babbo) dalle guance vellutate e rosa, piccole sugose saporite; appoggiato alla balaustra, un moscato vigoroso dispiegava i suoi tralci sul pergolato davanti alla villa e i grappoli contro il muro, pesanti e dolci, erano i primi a maturare; davanti al filare delle magnolie c’erano piante di mele e di susini e un albicocco così generoso che bisognava mettere sostegni sotto i suoi rami troppo carichi (nell’ erba, tra i frutti caduti la Vanessa atalanta  si stordiva di zucchero) e un ciliegio altrettanto generoso con un vecchio orsacchiotto sulla cima a cercare di dissuadere (invano) gli uccelli. C’era tutto questo. E altro. In quel tempo di serena abbondanza.  Comunque, per compensazione, era meglio rivolgersi alle nature morte con frutta. Così belle.Che mai la deludevano. Tralasciando la Canestra di frutta del Caravaggio (per ovvie ragioni di maestosità neppure un acino di quei grappoli in posa avrebbe spiccato), niente invece l’avrebbe trattenuta dall’ allungare una mano verso quelle zuppiere bianche, quelle alzate traboccanti di ciliegie, di mele, di pere, di pesche, di albicocche, di fichi… verso la ricchezza, la varietà e la bellezza di quei trionfi di frutta colorata, lucida, matura, zuccherina che canestri e ceste rovesciavano sul tavolo, sulla tovaglia bianca tra fiori, fiaschi di vino e formaggi. Con che voluttà avrebbe affondato i denti in quell’ anguria spaccata a metà, sentito la polpa pastosa, degradante dal rosa al rubino, sfarsi in bocca, assaporarla (ingoiare anche i semi), sentire il sugo colare sul mento, sulle mani. Ah, sorbirlo quel sugo, con gli occhi chiusi, soli, in cucina. Fino a sazietà. Altro che assaggio.

 

in Gazzetta di Parma, 6 ottobre 2019