Senza gli alberi della catalpa
Senza gli alberi della catalpa
È primavera. Senza gli alberi della catalpa. Segati e tagliati senza misericordia. Lo stradello, che dalla villa porta all’uscita, dov’erano trionfanti, vuoto e desolato. Come fosse caduto un sipario appaiono le facciate delle case con i balconcini ingombri di cianfrusaglie: sacchi dell’immondizia, vasi di fiori secchi, stendini, giochi di bambini sbiaditi dal sole e dall’acqua, antenne paraboliche, condizionatori, a volte, con le finestre aperte, l’interno delle cucine, delle camere da letto.
Perché tagliarle? Per contenere l’esuberanza della loro chioma si poteva intervenire con una periodica potatura.Non era meglio? Domande ormai vane. Raccolte le lagnanze dei vicini si era consegnata la loro sorte, con leggerezza stupefacente, alle motoseghe degli “addetti al lavoro”. Che una domenica mattina le hanno segate. Tutte. Quel rumore. E poi quel tonfo. Ripetuto. Che si percepiva anche da lontano. Lo stradello trasformato in un campo di battaglia. Segatura come sangue sul ghiaietto; motoseghe abbandonate come armi nell’erba; odore di miscela bruciata e di fumo nell’aria; tronchi sfrondati incatenati trascinati dal trattore fino al camioncino, caricati e scaricati sotto il portico. Dodici erano. E belle. E cariche d’anni. E io le amavo. Amavo i loro rami ricchi di midollo; la loro corteccia scagliosa e fessurata; le loro grandi foglie vellutate a forma di cuore; le loro infiorescenze a grappolo dai fiori a campana e con la gola dorata simili alle orchidee; il giallo autunnale delle foglie, i frutti simili a baccelli pendenti (da qui il soprannome di albero dei sigari). E gli insetti che le visitavano, le api per esempio. E poi gli uccelli. E il verde, mutevole a seconda della stagione, che prosperava sotto la loro ombra: viole, piantine di ruscus racemosus (le bacche rosse si intravedevano in inverno oltre la siepe del biancospino), asparagi selvatici, muschi, edere. Niente resta più di quel rigoglioso sottobosco. Tutto è secco. Tutto è cancellato.
Quando ancora percorrevo quella strada mi fermavo a guardare i ceppi (non restava altro) di un marrone chiaro, uniforme contornati da un’erbetta rada e pallida, e non potevo fare a meno di pensare con dolore alle radici che solo poco prima si diramavano in profondità nel terreno dove trovavano i nutrimenti necessari al loro splendido vivere. E immaginavo quella vasta rete di filamenti sotterranei tremare di sgomento al rendersi conto che i denti d’acciaio della motosega la stava uccidendo. E incominciando a morire una pianta trasmetteva all’altra, alla pianta sorella, il suo ultimo saluto. Un addio ripetuto. E non potevano scappare. Gli alberi non possono scappare. Dodici erano. E io le amavo.
Non passo più di là. Le stagioni sono così povere, così disadorne (sì, anche l’inverno) senza le catalpe. Non c’è più attesa di loro. Delle loro foglie. Dei loro fiori. Del loro profumo. Sotto la luce. Sotto il cielo dell’estate. C’è meno vita. Meno felicità. Meno Anima.
in Gazzetta di Parma, 7 luglio 2019