Fantaghirò, persona bella

“Fantaghirò, persona bella” spinta dal sonno sulla spiaggia del risveglio.

 

 Non l’ho cercata. Lo giuro. Per quale ragione avrei dovuto farlo? E’ lei che è venuta. Lei che se ne stava  colorata, accattivante, bagnata dal mare come un giocattolo dimenticato sulla sabbia fresca del mattino. L’ho vista da lontano. Mi sono avvicinata. E l’ho riconosciuta. L’ho raccolta. Era mia. Era sempre stata mia. Fin dall’infanzia. Chiedete ai miei fratelli se la ricordano. Chiedete a loro se ricordano quando il babbo ce la leggeva prima di andare a dormire (e anche la mamma ascoltava mentre cuciva). Vi diranno di no. No. Nessun ricordo di quella fiaba. Io sì, invece. E la voce del babbo. E gli insegnamenti suggeriti per non tradirsi subito imparati, adattati e messi in pratica.

Il primo che mi viene in mente è la costruzione della capanna ben mimetizzata nel bosco appena sopra il paese che per noi bambine era “il posto segreto” dove andare a mangiare meline  verdi e acidule raccolte sotto le piante o le susine o il ribes rubato negli orti, e a leggere i giornalini sedute per terra con le gambe incrociate come gli indiani, e dove era vietatissimo, dietro mio consiglio, portarci bambole o pentolini perché i maschi, trovandola, avrebbero subito capito che era nostra e l’avrebbe distrutta. Un’altra lezione, più difficile, consisteva nell’attraversare la corrente del Trebbia nel punto in cui era più impetuosa. Un passo dopo l’altro. Non scivolare sui sassi coperti di alghe. Non farsi trascinare via. Non fare ridere i maschi (sempre loro) che non aspettavano altro seduti sulla riva a guardare. Approdare vittoriosi sulla riva opposta. Oppure mettersi in fila, unica bambina, sulla roccia alta dopo essere arrivati fin lassù aggrappandosi ai cespugli di timo arsi dal sole. E quando era il proprio turno buttarsi di sotto, nell’acqua profonda con il naso tappato. Gli occhi chiusi. Di slancio. Senza tentennamenti. Senza girarsi indietro, e tradire così il desiderio di tornarsene al sicuro sulla pietraia a lavare le calze del babbo. Quindi preferire i pantaloncini alle gonnelline. Farsi tagliare le trecce senza un pianto, una ritrosia. Anzi, insistere perché lo si facesse, così da eliminare i nastri bianchi che denotavano immediatamente la nostra identità di femminuccia. E riguardo ai fiori (ah, com’era facile tradirsi con le rose che riempivano il giardino) se proprio se ne coglieva uno, mai e poi mai puntarlo al petto (dove del resto brillava già una lucida stelletta militare), ma infilarne in bocca il gambo con aria disinvolta.

La fine della fiaba, e cioè il matrimonio della Principessa con il Re, era così ovvio, così scontato, succedeva in tutte le favole, che non mi interessava per niente. Era il nascondere la propria identità per fare le cose. Il mostrare coraggio. Il difendersi. Questo avevo imparato da Fantaghirò. Questa la lezione che avevo messo in pratica per tutta l’estate. Con naturalezza. Con gratitudine. E poi sempre, non solo allora.

 

in Gazzetta di Parma, 5 maggio 2019