Vecchi fantasmi
Vecchi fantasmi
Aveva lasciato che la macchina si allontanasse. Poi aveva incominciato ad affrontare la salita camminando ora sul bordo della strada ora al centro, sopra una sottile striscia di ghiaia, perché le scarpe di vernice nera non erano adatte ad affrontare quella carraia infangata e sconnessa. Lo sapeva. Ma le colline intorno – le colline della val Trebbia che ritrovava dopo tanto tempo – con la distesa dei vigneti sottostanti, belli e seducenti anche se spogli, l’avevano spinta a farlo.
Avrebbe raggiunto la casa a piedi, aveva detto scendendo dalla macchina. E loro (ma questo l’aveva solamente pensato) sarebbero stati più liberi di parlare. Lui, il suo attuale compagno, avrebbe interrogato l’amica “Voglio sapere com’era Anna prima di me. Voglio sapere tutto di lei “. E lei, Lucia, l’amica di sempre, l’avrebbe accontentato. Sapeva anche questo. Ma non le importava.
Con le mani affondate nelle tasche della giacca, il bavero rialzato, si sentiva allegra, euforica.
Mi piace camminare sui sassi, sull’erba, sulle foglie, mi piace affondare nel fango, e sporcarmi. Anzi, di più. Le scarpe di vernice sono in sintonia con questo autunno regale colmo di odori pungenti, di colori accesi. Si fermò a guardare le foglie rimaste sui filari, il rosso, il viola, il giallo, il marrone attraversati dall’ultimo sole; i noci nodosi e contorti che risaltavano scuri contro l’azzurro freddo del cielo. Un attimo, ed ecco che il sole era tramontato del tutto. La nebbia aveva preso a salire dal fondo della valle, dal fiume, e inghiottiva silenziosa ogni cosa; piccole luci lontane si accendevano nel buio.
Saranno già arrivati, pensò. La casa non è lontana, subito dopo la curva. Accenderanno la stufa, e non appena sarà calda, Lucia infilerà le teglie dei panzerotti nel forno. Si siederanno sul divano a parlare, a sfogliare l’album delle fotografie.
Ripensò a quella vecchia casa di campagna che conosceva così bene per avervi trascorso tante estati, ospite dell’amica. La porta d’ingresso si apriva sulla cucina con la stufa al centro, poi il lungo tavolo spostato di lato, il divano contro la parete, il lavandino sotto la finestra, pentole di rame e piatti ornamentali alle pareti insieme a quadretti con tulipani, pesci e alghe verdi, dritte come pioppi, che aveva disegnato lei con i pastelli a cera; erano facili da fare, decorativi, e l’amica li aveva fatti incorniciare e appesi nelle stanze e lungo la scala che portava alle camere, chissà se c’erano ancora. A sud della casa, contro il muro, ben protetta, una grande pianta di fico si affacciava sopra la strada e dava frutti verde chiaro, piccoli e dolcissimi, che loro mangiavano senza sbucciare sfidando le vespe; e lastre irregolari di arenaria lastricavano il sentiero e lo spazio intorno tra grandi ciuffi di Hosta, damigiane in vetro senza paglia raccolte a formare un’isola fragile e mutevole sotto la luce, e recipienti di latta con etichette sbiadite di marmellata o di tonno sott’olio, usate come vasi per il basilico, il rosmarino, il timo, (passando vicino lei ne strappava foglioline da odorare dopo averle fregate sul palmo) ; il susino e il ciliegio (così generosi di frutti che bisognava mettere un sostegno sotto i rami perché non si spezzassero); l’orto, piccolo e assolato, il forno per il pane con le fascine di legna che si raccoglieva nei boschi vicini.
E di nuovo il pensiero, la convinzione, che quella casa lassù, che amava così tanto, lontana dal paese, isolata, potesse bastare a se stessa come un organismo autosufficiente. Che quella sola volta alla settimana che si scendeva al paese nel giorno di mercato per rifornirsi di farina, olio, zucchero, mangime, sementi e altro che occorreva, fosse persino di troppo, e che, volendo, si sarebbe potuto senz’altro ridurre a due o tre volte nel corso dell’anno. Ancora le piaceva pensare di poter vivere lontano da tutti, costruirsi un proprio mondo con casa giardino orto bosco cielo colline fiume solo suoi, e scrivere e leggere seguendo il ritmo delle stagioni.
Si fermò. Non era impaziente di arrivare, di entrare nel circoscritto alone di luce della lampada, di unirsi alla conversazione. Stava bene per la strada, sola, in compagnia dei suoi ricordi.
Ripensò alle sere d’estate quando il ragazzo di allora e quello dell’amica salivano dal paese e le venivano a prendere per andare a ballare. Al ritorno ognuna delle due coppie imboccava un sentiero diverso, e ancora per poco si intravedevano nel buio la brace della sigaretta, il profilo dei corpi allacciati che man mano sfumava, le voci che si affievolivano fino a ridursi a un parlottare sommesso sempre più indistinto…ancora qualche risata soffocata… poi più niente. Solo il canto insistente dei grilli; l’odore dell’erba tagliata che arrivava a folate calde e improvvise; le stelle che sembravano accompagnarli. Seguirli. Rincasavano a notte fonda. Quando era lei a rientrare per prima, le piaceva restare appoggiata al davanzale della finestra del bagno, che era piccola e la conteneva come una nicchia. L’aria della notte muoveva la leggera tenda di pizzo accarezzandole la guancia. Le colline ancora buie e addormentate infondevano un senso di pace e di sicurezza. I loro dorsi scuri regolari sembravano quelli di una mandria esausta accampata per la notte che l’indomani all’alba avrebbe ripreso a muoversi, ad attraversare valli sconosciute, ad andare verso il mare. Chiudeva gli occhi. Le sarebbe piaciuto dormire appoggiata alla finestra. Domani…domani ancora…si riprometteva infilandosi nel letto…ma è già domani…e si addormentava con tutti i baci e le carezze che aveva ricevuto, con tutto l’amore che aveva fatto.
Pensò che l’amica, senza dubbio incalzata dalle sue domande (lui era così avido del suo passato, di quando non c’era a guardarla, a seguirla, ad amarla, a proteggerla) gli avrebbe forse raccontato di quel suo primo amore… ma quella pienezza, la pienezza che lei provava, la pienezza di quei giorni, avrebbe potuta dirla? Poteva sapere, l’amica, fino a che punto lei, allora, fosse stata felice?
Un piccolo cane le si precipitò incontro lungo la discesa abbaiando furiosamente. Un uomo si affacciò alla stalla a chiamarlo. E quel richiamo netto e imperioso infranse come una sassata il vetro trasparente dell’aria e si propagò per la valle. Tornò di nuovo il silenzio.
Aveva voglia di piangere.
E d’improvviso capì perché, ferma sul ciglio della strada, avesse continuato a salutare agitando la mano come se partisse per un viaggio, fino a che la macchina non era scomparsa dietro la curva.
Adesso, mentre appoggiata al tronco di un noce respirava l’odore freddo della sera, della terra umida, delle foglie marce, capì che non era solamente per quella bellezza che si dava, per quei luoghi mai dimenticati che ritrovava dopo anni. Doveva compiere sola quel viaggio a ritroso.
L’ultima volta che era salita lassù era stato per il suo compleanno. Avevano scelto – lei e il suo primo amore – quella data per rivedersi. Per incontrarsi di nuovo dopo essersi lasciati (non ne ricordava il motivo) alla fine dell’estate. Anche allora il cielo era così limpido e freddo e l’arancione-rosso che orlava le colline sembrava una promessa, un cerchio di fuoco che si sarebbe chiuso intorno a loro, al loro amore mai finito, altrettanto incandescente. Anche allora i fari della macchina illuminavano la strada fangosa, i muri di pietra a sostegno dei campi, le piante spoglie. Erano stati a cena e ora, non più distratti dal cibo, dalla scelta dei piatti, dalla solerzia del cameriere avvertivano il reciproco imbarazzo e goffamente cercavano, ciascuno a suo modo, di eluderlo: lui con entrambe le mani appoggiate al volante esagerava la difficoltà di quella salita stretta e sassosa ripetuta centinaia di volte, lei non si abbandonava più contro la sua spalla quando, solo poco tempo prima, persino il suo respiro, l’odore del suo profumo, delle sue sigarette le procuravano una gioia segreta, una fitta di desiderio che la spingevano ad abbracciarlo, a baciarlo con foga ( e lui che non si sottraeva, ma rideva, e stava al gioco). Era bastato compiere, impacciati e silenziosi, quel tratto di strada per rendersi conto che niente era più come prima. Arrivati davanti alla casa – la casa che tra breve avrebbe rivisto – non erano riusciti a compiere un gesto che li avvicinasse, che colmasse la distanza. Non c’era stato bisogno di parole. Lei non fingeva più di cercare le chiavi nella borsetta, lui continuava a fumare in silenzio; poi aveva girato la macchina ed erano scesi di nuovo in paese. Si erano salutati. Da allora non si erano più incontrati.
Si sentì attraversare da un lungo brivido di freddo. Riprese a camminare. Ecco la casa. Si affrettò quasi correndo verso la finestra illuminata. Spalancò la porta che dava sulla cucina.
“Uscite, vecchi fantasmi!” Spense la luce e corse fuori senza voltarsi.
in ALI ( Associazione Liberi Incisori) 2018