Borges, Ricci e il Labirinto

Borges, Ricci e il Labirinto

 

Ho conosciuto (qui nell’accezione di vedere) Jorge Luis Borges in occasione della colazione sull’erba offerta da Franco Maria Ricci al grande argentino (con lui aveva ideato la Biblioteca di Babele, collana di letteratura fantastica) nella sua casa di campagna La Masone. Sabato 30 Aprile 1977. Ore 13,30. La giornata era bella. Piena di sole. Di tepore. Quando sono arrivata (era venuta a prendermi Laura, ora moglie di Franco, al Castello di Fontanellato dove lavoravo perché io non guidavo) La Masone era  avvolta da un insolito brusio di alveare.

Salite le scale e raggiunto quello che in origine era stato il fienile e adesso si presentava come una vasta terrazza ristrutturata aperta sulla campagna, la moltitudine di persone che l’affollava era tale che bisognava prestare attenzione nel muoversi a non urtare il bicchiere,  il piatto di tortelli,  di salume,  di scaglie di parmigiano che ognuno staccava da sé con il coltellino a mandorla da grandi forme di formaggio aperte a metà e saccheggiate in un festoso andirivieni.

Non mi servii di niente. Scrutavo intorno con attenzione. Lui dov’era? Senza dubbio nascosto da quella barriera compatta di schiene. Chiedendo scusa e sorridendo timidamente se qualcuno si girava a guardare sentendosi urtato, mi sono avvicinata. E penetrando poco alla volta in quello schieramento a testuggine romana, riuscii a sbucare in Sua presenza. Eccolo. Borges. Una leggenda vivente. A un passo da me. Seduto. Le mani appoggiate al bastone tra le gambe. In giacca e cravatta. Il viso rivolto a chi gli parlava in quel momento, lo sguardo perso nella grigia nebbia dei suoi occhi ciechi. Lo stavano intervistando. Non sentivo niente. Ma non me ne importava. Tutto è già nei libri di uno scrittore. Mi bastava vederlo. E se mai mi fossi arrischiata a fare qualche domanda sapendolo lettore insaziabile, sarebbero state curiosità inerenti alla lettura quelle che mi sarebbe piaciuto soddisfare. Per quante ore al giorno leggeva? O meglio, per quante ore si faceva leggere? Diversi libri insieme o uno alla volta? Un libro a seconda dell’ora del giorno? Dell’umore? E la voce del lettore come doveva essere? Come la preferiva? Incolore e monotona. O vivace, limpida, sussurrante? Doveva interpretare il testo fingendo stupore, noia, rabbia, malinconia, amore… o doveva mantenersi costantemente neutra? Sentendomi sempre più premere alle spalle, lasciai il posto ad altri, e mi allontanai pensando che mi sarebbe piaciuto leggere per lui. Offrirgli il mio tempo. La mia voce.  

Adesso, mentre a volte cammino nel Labirinto di bambù che Franco ha realizzato per tenere fede a una promessa - a un sogno -  fatta a lui e a se stesso, mentre guardo la luminosità, l’opulenza del verde, e ascolto il segreto dell’acqua che scorre tra le radici e lungo i sentieri il fruscio del vento tra le foglie, non provo né ansia né affanno. Non sbucheranno le sue amatissime tigri dal folto delle canne. Non mi perderò.No. Non è ancora il deserto.  

 

in Gazzetta di Parma, 17 giugno 2018