L'onda lunga del Tempo

L’onda lunga del Tempo

 

Al mattino, quando una disperazione sorda l’assediava, l’unica salvezza era quella di aprirsi un varco e fuggire. Lasciva la colazione sul tavolo, la tazza fumante, la marmellata, le fette imburrate e correva fuori in giardino.

Il camminare a passi veloci, lo scricchiolio che producevano i suoi passi sull’erba gelata, l’incespicare, il cadere in piccole buche nascoste, l’aria fredda sul collo la distraevano da se stessa. Prendeva la carriola, la trascinava per il parco inselvatichito, e come un forzato che doveva superare la quota giornaliera stabilita per ottenere un supplemento di pane (stava leggendo dei gulag staliniani) incominciava con furia a riempirla di rami, di sterpi, di pigne. Oppure afferrava il rastrello e rovistava sotto le magnolie sconvolgendo una sovrapposizione di strati di foglie coriacee e dure sedimentate da anni d’incuria e d’abbandono. Le accadeva allora di pensare all’evoluzione della terra, alle ere che si erano succedute, all’avvicendarsi delle glaciazioni, e il fantasticare sulla lunghezza di quel tempo geologico con durata di miliardi di anni l’annichiliva: era archeozoica, paleozoica, mesozoica… e su su, attraverso la quaternaria, arrivare all’uomo. E già questi semplici nomi che ricordava in maniera confusa, scolastica erano per lei motivo di stupefazione. E bastavano ( oh, se bastavano) a ridurre la sua vita e i suoi affanni a poverissima cosa: il libro promesso che le stava così a cuore e che non si faceva mai, gli amici che per una ragione o per l’altra avevano deluso o si erano allontanati o che tali non erano mai stati (e forse, anzi, di sicuro, anche lei aveva deluso e tradito); la vecchiaia che stringeva d’assedio ogni giorno di più (le rughe senza rimedio che solcavano il viso), gli abiti alla moda che per quanto nuovi  non avrebbero nascosto la fragilità, la stanchezza del corpo; l’avidità con cui faceva le sue letture come a voler cercare un viatico per condursi nel giorno, e prepararsi a congedarsi dalla vita. Ultimamente il fastidio per gli orologi. Aveva smesso di portarli, li trovava ridicoli. Come se il tempo si potesse ingabbiare, addomesticare. Come se l’onda lunga del tempo avrebbe risparmiato quelli che ne indossavano di preziosi, di preziosissimi, e non si sarebbe abbattuta invece anche su di loro senza distinzione, senza riguardo. Il tempo se la rideva di quel movimento meccanico ultrapiatto, di quel doppio quadrante con 33 funzionalità aggiuntive, carica automatica, ponti in titanio, calendario perpetuo(!), indicazioni astronomiche, sistema musicale…, il tempo chiuso, prigioniero, alloggiato nella sua cassa con tutti i suoi 1366 componenti realizzati a mano per aumentare la riserva di carica, ripetizione minuti e turbillon …come fosse un gioco. Che sberleffi si faceva – si fa -  il tempo di tutto questo. Il Tempo.

 Sentiva il sudore sotto la cuffia, lungo la schiena le braccia il collo, ma insisteva, continuava a rastrellare, a rimescolare e in quel fare inconsulto che assomigliava molto a un grido (a un urlo di disperazione), in quel pensare smarrito e opprimente, la colpiva l’odore della terra quando finalmente la scopriva nuda scura ricettiva sotto i diversi strati di foglie. E le veniva da sorridere al trovare lì sotto le noci nascoste dagli scoiattoli: il germoglio pallido e tenace che sbucava dal guscio le diceva che qualcosa si sarebbe salvato, e avrebbe, lui sì, attraversato il Tempo per germinare di nuovo in un silenzio stupefatto, in un tepore di luce, senza dolore. (E le formiche intente a ricostruire il formicaio)

 

 

in Gazzetta di Parma, 14 gennaio 2018