Arde il fuoco di tre legni
Arde il fuoco di tre legni
Bruciava il melograno, il bosso, il glicine. La nevicata abbondante dell’inverno precedente aveva piegato il pergolato che, nel precipitare, aveva spezzato diversi fusti e rami del melograno; il bosso invece era morto per aver nutrito le larve della piralide; mentre il glicine era stato potato per contenerne l’esuberanza. Questi legni, sia per le dimensioni ridotte della pianta da cui erano ricavati, che per la qualità intrinseca del legno stesso (pur essendo quello del melograno e del bosso duro e compatto per la crescita lenta e costante, quello del glicine invece di nessun valore, leggero come un fuscello) non fornivano un calore duraturo, ma erano stati tagliati comunque in piccoli pezzi, accatastati e lasciati seccare per tutta l’estate contro il muro della casa. Adesso aveva incominciato a bruciarli.
Lei li distingueva facilmente uno dall’altro: la scorza del melograno era di un giallo pallido, debolmente verde, con macchie color crema; quella del bosso rugosa, reticolata, di un ocra esangue; di un grigio scuro uniforme quella del glicine, e quando al mattino riempiva la cesta per portarli di sopra, non poteva fare a meno di pensare alla loro passata bellezza, al piacere che le avevano regalato, a tutti quegli anni trascorsi in loro compagnia. Come li ricordava.
Il melograno cresceva in un tranquillo angolo del giardino a ridosso della balaustra e, inselvatichito, non produceva frutti: a primavera le sue foglioline color rame, appena emesse, diventavano a poco a poco di un verde brillante e lucido, fioriva con grande effetto ornamentale per i suoi fiori doppi di un rosso che trascolorava nell’arancione attirando api e farfalle, e quando appassiva i suoi petali esausti formavano sulle pietre del lastricato un tappeto rosso inquietante e magico. Il bosso, solo pochi anni prima forte vigoroso e antico - ah, il verde acqua delle sue foglie lucide e scure che aveva amato profondamente - il trionfante buxus sempervirens, il re del suo giardino, era stato mangiato, anzi divorato, dalle larve delle piralidi. E ogni volta che si imbatteva in lui la sofferenza per la sua fine si rinnovava al vedere i suoi rami secchi, i suoi fusti disseccati (ne conservava alcuni in una scatola di cartone nello studio tra le sue cose più amate), e assisteva stupita all’opera pietosa dell’edera e della pervinca che portavano avanti, giorno dopo giorno, la loro opera di nascondimento arrampicandosi, tessendo silenziose e alacri la loro trama di foglie sulla siepe senza suono. Il glicine, invadente sì, ma quanto bello e generoso per quei grappoli stupendi lunghi, blu violetti che pendevano dal pergolato, e offriva generoso alle api che s’infilavano nei fiori a succhiarne avide il nettare, e ne uscivano ebbre e incipriate di polline, e il profumo paradisiaco che riempiva l’aria, arrivava alle narici e commuoveva fino alle lacrime. (Ma lui era ben vivo e sarebbe tornato a fiorire)
Per una scelta voluta, ponderata, li bruciava con parsimonia, poco alla volta, con loro voleva arrivare a Natale. Accendeva la stufa - la grande stufa di maiolica color miele, il cuore della sua casa in inverno - e una volta avviato il fuoco, lo alimentava con questi piccoli pezzi di legna in un rito domestico, intimo, familiare. Lasciava lo sportello aperto. Stava nel riverbero della fiamma, nel sentore d’incenso che sprigionavano e, parendole degna di loro, questa fine la rendeva meno triste: un fuoco sacro come per gli eroi - e il giorno dopo la cenere leggera distribuita nei luoghi della loro passata bellezza.Della loro passata grandezza.
in Gazzetta di Parma, 10 dicembre 2017