nell'orto del re

Nell’orto del re

 

Aveva sempre pensato che la sua stagione preferita fosse l’estate per quei cieli bianchi di luce, per quel caldo afoso, per il frinire assordante delle cicale che si accompagnava a un vivere libero, allegro, spensierato. Invece adesso, non senza stupore, si accorgeva di quanto le piacessero le giornate di pioggia, quasi la esonerassero dal vivere nel solito modo frenetico, convulso, avvolgendola in un silenzio soffice, facendole scoprire la felicità della lentezza, del rimandare.

Con i cuscini del letto ben sistemati dietro la schiena guardava lo spettacolo della pioggia che batteva insistente sul balcone, aggrediva i vasi dei gerani e dell’edera che si arrampicava sul graticcio con foglie lucide orlate di bianco. Che piacere sarebbe stato scendere in giardino, camminare sull’erba bagnata, sulle foglie di un giallo intenso, dorato, respirare quel buon odore di umidità, di terra, di corteccia e di legno che si decomponevano, incontrare colonie di funghi, panetti di muschio brillante. Tra qualche giorno… quando tornerò a casa…

Stava bene sola nell’appartamento caldo e silenzioso. Il disordine della stanza non le dava fastidio: scarpe erano sparse negligentemente sul pavimento, la collana di corallo appesa al termosifone, la gonna a fiori, la maglietta gettate sulla poltrona, le valigie aperte e sottosopra per avervi rovistato in fretta la sera prima quando erano arrivati da Parigi. Dopo essersi sbarazzati di borse e bagagli, fatto una doccia, forse per quell’aria di vacanza che ancora li permeava e da cui non volevano staccarsi del tutto, avevano preferito uscire e cenare in un ristorante sotto i portici. E già lì, nella calda intimità della sala che li aveva accolti all’entrata con i vetri appannati, le tendine alle finestre, i quadri alle pareti, la luce discreta si era sentita bene, a suo agio: ogni cosa in rapporto equilibrato con il suo mondo interiore. Mentre aspettavano di essere serviti, notando un vasetto di rose appassite sul bancone del bar accanto a un macinapepe, a una lunga bottiglia di vetro scuro e a un bicchiere che si davano in grigi polverosi e opachi, aveva detto – Guarda, un Morandi -. Lui aveva seguito la sua indicazione. – Abbiamo lo sguardo viziato dalle troppe mostre e dai troppi musei visitati - aveva risposto. Lei non aveva ribattuto. Ma non era quello: era la povertà delle cose che si offriva con incantevole naturalezza.

 

Adesso, con aria distesa e riposata, guardava con riconoscenza a quella giornata di brutto tempo. Lui era uscito per un appuntamento di lavoro, lei non l’aveva sentito e aveva continuato a dormire. È presto. Ho tutta la mattina per me, almeno quattro ore. Quattro ore solo mie. Da vivere, da assaporare in perfetta solitudine, e che attraverserò come un pesce che nuota sul fondale marino senza scomporne l’uniformità, la quiete. La giornata là fuori, faticosa, irritante non mi riguarda. Il sole non verrà. L’azzurro non verrà. Niente colori squillanti, rumorosi. Che bellezza.

Si era alzata. Aveva bevuto succo d’arancia trovato sul tavolo della cucina ed era tornata a letto. Di nuovo aveva sistemato i cuscini dietro la testa, preso il blocco degli appunti, la matita e, gettata un’ultima occhiata alla finestra dove nuvole gonfie e turbinose erano schierate compatte sopra i tetti delle case e le altane (potrei vivere così per settimane) aveva cercato tra la quantità di libri, guide, album comprati durante il viaggio e sfilato senza incertezze il catalogo della mostra di Monet per le bianche ninfee di Giverny che sembravano scivolare fuori dai confini della copertina-stagno, fluttuare lievi, fosforescenti e angeliche sulla pozzanghera che si era formata sul balcone.

- Mia Regina, avete riposato bene?

- Non mi piace essere una Regina. Da bambina quando leggevo le favole mai mi sono immedesimata nella regina. Sempre dolori e tristezza, povera donna; passato il primo momento erano le favorite di turno a preoccuparla e se non poteva avere figli eccola facile preda di maghi e di fattucchiere, di intrugli e di oroscopi e quando finalmente metteva al mondo l’erede erano altre preoccupazioni, e se nasceva femmina era solo merce di scambio per alleanze, matrimoni… no no, se devo essere qualcuno preferisco essere il Re.

- Ma se tu sei il Re, allora cosa sono io, la Regina? – e prima di darle il tempo di rispondere aveva proseguito spostando il catalogo di lato e adagiando la testa sulle sue gambe fasciate dalle lenzuola: - Sono contento che tu abbia accettato di fermarti qualche giorno qui da me. Ti farò scoprire la città, la sua parte più segreta, nascosta…se hai ancora voglia di vedere qualcosa…

Lei non aveva risposto. Gli passava le mani nei capelli umidi di pioggia, gli sfiorava il viso in gesti delicati. Si sentiva la pioggia battere contro i vetri in raffiche improvvise e violente.  

- E se andassimo a tavola? Ho preso un pollo allo spiedo. E’ ancora caldo e croccante. Insalata. Uva e fichi. Una buona bottiglia di Pignoletto delle nostre colline. Mentre tu ti prepari, io apro il vino, apparecchio… 

- Sì ho fame. Non ci metto molto.

- Bene. Al lavoro…

Era tornato in cucina mentre lei si era messa a cercare nella valigia. I rumori della cucina la raggiungevano ovattati attraverso la porta socchiusa: uno sportello che si apriva e chiudeva, il cassetto delle posate che veniva tirato, lo scroscio dell’acqua. Attratta da quell’acciottolìo di stoviglie che percepiva buono, amorevole si era affacciata alla porta socchiusa. Lui le girava le spalle. Era al lavello, il grembiule legato ai fianchi. Si era infilato gli occhiali (ne scorgeva la stanghetta quando si girava di lato) e intuiva dai gesti lenti, precisi, la meticolosità che metteva nello staccare una foglia d’insalata dal cespo, passarla sotto l’acqua corrente, posarla nello scolapasta. La stessa cura, la stessa attenzione che aveva percepito poco prima nel rumore della chiave che girava nella serratura. Provò un moto di tenerezza e il desiderio di avvicinarsi in punta di piedi, di abbracciarlo, di stringersi a lui, posargli una mano sulla bocca perché non dicesse niente, non parlasse. Che bisogno c’era?

Entrò in bagno, sfilò la t-shirt, aperse il rubinetto della doccia.

- Per la Bocca del Re, questo pollo all’italiana – disse lui deponendo sul tavolo il piatto da portata dove troneggiava il pollo arrosto con insalatina di contorno.

- Sei un valletto di camera perfetto e discreto. Non accendere la luce. Mi piace stare in questa penombra. In questa cucina tiepida come una serra. E’ tutto il giorno che piove. E la pioggia, ho scoperto di recente, mi rende felice. Quando mi sono alzata ho notato una lama d’azzurro all’orizzonte. Spero non prevalga sul grigio. Questa pioggia è benedetta. Mi rinvigorisce, come fossi una pianta. Un frutto. Mi dà nuova linfa. Nuova energia. Pima ho detto una sciocchezza. Troppo impegnativo essere Re. Voglio essere un umile, sconosciuto giardiniere del potager du roi, dell’orto del re, voglio coltivare, con orgoglio e soddisfazione, le zucchine e i piselli per la tavola di Sua Maestà…ehi, ma ti stai mangiando tutto il pollo mentre io faccio sfoggio di erudizione…Le ali sono mie. Guai se le tocchi.

 - Senti questo vino. Non allungarlo però, mi raccomando. Non fare come Luigi. Un sacrilegio anche se era il Re Sole. Per frutta ci sono uva e fichi.

- Fichi comprati al supermercato! Che orrore! Mi deludi. L’orto che La Quintinie aveva creato per il Re Sole - e dove il Re a volte amava passeggiare con la corte - dava trecento varietà di pere, sette specie di meloni, cetrioli al principio di aprile, asparagi a dicembre…fragole anche in gennaio…700 alberi di fico coltivati in cassette e messi al riparo in inverno nella figuerie (niente battute scontate o sorrisini, ti prego, li hai già fatti quando la guida elencava tutto questo…) Ci pensi? Fichi freschi fin dal mese di giugno… Mi basta chiudere gli occhi e vedo tutto questo splendore, quest’abbondanza vegetale. Ah, i meleti di Versailles! I fichi di Argenteuil! Che povertà di gusto questi fichi. Che bassi natali possono vantare! Basta così. Mi ritiro. Torno nella mia serra. Raggiungimi non appena hai finito il tuo bicchiere di vino. Non sparecchiare. Faremo tutto dopo. Adesso ci sono affari più importanti da sbrigare. Affari urgenti.

Si era alzata da tavola con un sorriso ammiccante lasciando scivolare la vestaglia dalle spalle. Si era coricata nuda sul letto. La macchia d’azzurro che aveva intravisto all’orizzonte tra le nuvole quando si era alzata non c’era più. Il grigio del cielo era uniforme, senza sbavature. Che momento delizioso, pensò.

- Eccomi, mia bella giardiniera. Mi aspettavi, vedo. Questo tuo offrirti senza pudore… questa tua finta passività…questo tuo finto abbandono…non mancano mai di eccitarmi. Ti guardo e resto incantato. Mi trattengo dal divorarti…prima voglio accarezzare la tua pelle bianca, liscia, luminosa… voglio guardare, annusare, leccare, riempire di baci questo tuo corpo, mordicchiarlo, palparlo come la polpa di un frutto di cui sono ingordo e che non appena sarà maturo, coglierò, assaporerò ... solo per la mia bocca…per il mio piacere…per il tuo… Il suo respiro era rauco, affrettato.

 Lei tentò, per gioco, di sfuggirgli rannicchiandosi, allontanandosi, stringendo il cuscino tra le braccia, ma subito tornò a distendersi, a offrirsi. E anche lei prese a morderlo delicatamente sulle labbra, a rispondere ai suoi baci, a giocare con la sua lingua, a stuzzicarlo, a provocarlo. Lo accarezzò lungo i fianchi. Sfiorò il suo sesso bagnato, turgido, in erezione. Un germoglio vigoroso. Sopraffatta dalla sua stessa eccitazione lo condusse dentro di sé, impaziente. Non farmi aspettare. Coglimi.

 

La pioggia cadeva, cadeva.

in ALI 2017,  Vivere la città – IX Centenario del Comune di Bologna