Il prezzemolo nell'orto delle fate
Il prezzemolo nell’orto delle fate
La mamma è ammalata, e anche i fratelli lo sono. Se ne stanno tutti a letto nella grande camera - in origine un salone - divisa in due da un paravento di carta a fiorellini rosa e azzurri: nella parte più ampia c’è il letto matrimoniale, l’armadio, la specchiera, nell’altra dormiamo noi. Tocca al babbo preparare da mangiare.
È appena tornato dall’ufficio. Ancora in giacca e cravatta, la sua divisa, (in estate tiene la giacca appesa a un dito dietro le spalle, nell’altra mano la sigaretta accesa) sta affettando la cipolla per il sugo mentre io, vicino al tavolo, lo guardo. La fa soffriggere in un piccolo tegame, aggiunge la carne tritata che ha comprato dal macellaio prima di salire in casa, e la conserva che spreme direttamente dal tubetto. Mescola. Aggiunge acqua e sale. I vetri della cucina si appannano. Ci vorrebbe del prezzemolo, dice. So dove trovarlo? Sì, lo so. Esco. Piove. Scendo le scale di corsa. Un tempo le aiuole del cortile erano piene di fiori: cespugli di peonie bianche screziate di rosso, rose (con quelle gialle, rampicanti sulla cancellata in ferro battuto, riempivo in fretta il mio cestino di petali profumati per la processione del Corpus Domini), mughetti. Adesso, da quando diverse famiglie, oltre la nostra, abitano questa grande casa padronale divisa e suddivisa a seconda delle esigenze, insalata, carote, sedano, pomodori ne hanno preso il posto. Il prezzemolo cresce vicino al tronco del glicine che si arrampica lungo il muro sinuoso come un serpente. Ne prendo un bel mazzetto. Torno su. Il babbo ha già messo l’acqua sul fuoco per la pasta e ha acceso la luce tanto c’è buio in cucina. Pulisce il prezzemolo e lo aggiunge al sugo. Il profumo è buono. Non ce la stiamo cavando male, sembrano dirci gli sguardi soddisfatti che ci scambiano. Metto la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le forchette. Mentre il babbo scola la pasta io vado a chiamare la mamma, felice. È tutto pronto. Venite. La mamma si alza e dice ai fratelli di non muoversi, di stare al caldo, che gli porteremo da mangiare a letto, nella cesta di vimini. Cammina adagio avvolta in una coperta perché per raggiungere la cucina bisogna passare per il terrazzo. Entra. Si siede a tavola. Anch’io mi siedo. Il babbo ci serve dalla zuppiera. La mamma ne prende una forchettata. Mastica. Sputa. Troppo sale, dice. Troppa conserva. Troppo prezzemolo. È immangiabile. Lei e i bambini hanno la febbre. Ci voleva del brodo di gallina, una minestrina, glielo aveva detto, no? Il babbo cerca di giustificarsi. Litigano. Tengo la testa china sul piatto: neanche io riesco a mangiarla. La mamma si alza, sistema la coperta sulla testa e torna in camera. Il babbo getta la pasta nella pattumiera. Accende la radio. Cerca un notiziario. Attenta a non fare rumore, io scivolo dalla sedia, e disegno sui vetri appannati la solita casa con l’albero a fianco e il comignolo che fuma. È anche colpa mia se la pasta non era buona: ho colto troppo prezzemolo. E il babbo l’ha messo tutto. Era giusto. Il prezzemolo che quella mamma mangiava nell’orto delle Fate calandosi con una scala di seta sembrava non bastarle mai. Ne era così ghiotta che… Riprendo il libro delle favole per averne conferma, lo apro sul tavolo, leggo: ”C’era una volta marito e moglie che stavano in una bella casina. E questa casina aveva una finestra che dava sull’orto delle Fate”. Alzo la testa, e guardo la mia casa sui vetri che va disfacendosi in lunghe righe pesanti. E si cancella. Non vado oltre. Oggi è solo l’inizio che mi piace.
in Gazzetta di Parma, 8 marzo 2015