Il cespuglio delle rose centifolia
Il cespuglio delle rose centifolia
Il cespuglio delle rose centifolia era magnifico. Opulento. Illuminati da stami dorati, i fiori doppi, dal colore rosa intenso, nella pienezza della fioritura e scaldati dal sole, emanavano un profumo inebriante. In ginocchio, con guanti e cesoie, lo stava ripulendo dai rami secchi e dai germogli di amarena che vi erano cresciuti in mezzo confondendosi tra il fogliame. Rispetto agli altri cespugli di rose, a questo prodigava più attenzioni, più cure perché era il suo preferito. Perché ogni anno, al tempo della fioritura, la sua bellezza la sorprendeva. E quella mattina il sentore tiepido di verde, di legno, di terra bagnata che vi aleggiava intorno donava sfumature così conturbanti al suo profumo che a tratti interrompeva il lavoro per respirarlo, ingorda, con gli occhi chiusi.
Nessun’altra fragranza poteva eguagliare quella della centifolia. Nessun’altra aveva tonalità così calde e vibranti. Nessun’altra quella sensuale delicatezza. Pure, quella incondizionata ammirazione e dedizione non bastavano a cogliere, nascosta sotto la superficie, la realtà segreta del cespuglio. Anno dopo anno continuava a sfuggirle. Scriverlo? si era chiesta. Riuscire con le parole a dire del cespuglio fiorito la bellezza, il profumo, l’aristocratico sfarzo? Il tentativo si era rivelato deludente. Per sua incapacità, certo. Ma anche perchè le parole che per gli scambi quotidiani poveri e prosaici, superficiali e falsi potavano servire, servivano, oltre non potevano andare. Non andavano. Persino al confronto con i petali caduti quei segni erano irrimediabilmente morti. Fotografarlo, allora?
Sì, l’aveva fatto, più e più volte in ogni condizione di tempo e di luce – come Monet aveva ritratto centinaia di volte le ninfee di Giverny – non tanto per fissare nel miglior modo possibile quella splendida fuggevolezza e poterla riviverla nel futuro come fosse ancora nel presente, quanto per sorprendervi la sua seconda vita, quella altrettanto vera che si svolgeva nascosta e silenziosa dietro la realtà visibile. Ma una volta disposte sul tavolo le fotografie si erano mostrate come il risultato banale di una vanitas domestica per niente originale.
Un anno, indispettita, aveva reciso tutte le rose, e ne aveva fatto mazzi con cui aveva addobbato a festa ogni stanza della casa. Ma quel gesto di insensata spogliazione - c’erano rose ovunque in vasi vasetti brocche bicchieri… anche con un unico fiore - aveva rivelato ancor più la sua impotenza, acuito la sua frustrazione. Per converso, l’anno seguente si era limitata a una, due rose colte quasi distrattamente verso la fine della fioritura quando ormai l’opulenza del cespuglio stava declinando, il suo mistero rientrando in un banale anonimo verde.
Anche i molteplici e svariati suggerimenti culinari: marmellata di rose, rosolio, acqua di rose, risotto, torta con petali di rosa…aveva tralasciato senza alcun ripensamento dopo averne letto semplicemente l’esecuzione. Il solo pestare i petali di rosa nel mortaio con lo zucchero, che mai sarebbe riuscita a praticare, aveva deciso per tutto il resto.
Ricordava, invece, quanto il gesto involontario di pungersi e di macchiare di sangue lo stelo e la foglia di una di quelle rose, avesse accorciato per un attimo, con sua stessa sorpresa, la distanza tra lei e l’essenza del cespuglio, pur giudicando quell’alleanza, nel momento stesso in cui la percepiva, una cosa infantile.
Bene, aveva finito: i germogli di amarena erano stati recisi, così i rami secchi e sottili, e aveva grattato via anche quel poco di muschio che era cresciuto al buio tra i rami spinosi. L’anno prossimo, si ripromise, oltre che sfoltirlo per evitare una crescita disordinata, l’avrebbe aiutato con un tutore per sorreggerlo e conferirgli un portamento più aggraziato. Sfilò i guanti, radunò gli attrezzi nel cestino. Il cespuglio splendeva nella luce piena del mezzogiorno. Gioioso. Incantevole. E quell’accordo cremoso di cipria…di vaniglia… Avvertì come sempre la solita cesura, il solito diaframma. Fece per alzarsi. Poi si fermò. Raccolse alcuni petali caduti sul palmo della mano. Con gesti misurati e lenti uno dopo l’altro li portò alla bocca, cercando con delicatezza oh, non di mangiarli, ma di assorbirli. Di assorbire quella loro vita misteriosa e sfuggente. Come quando da bambina - le mani giunte - teneva in bocca l’ostia consacrata. A lungo. Forse più del dovuto. Prima di inghiottirla.
In ALI (Associazione Liberi Incisori – Bologna) 2014- Tema: Chi non si maschera ?