Povera bambina
Povera bambina
Aveva cercato nei cassetti dell’armadio, del comò, del cassettone, nell’armadietto del bagno, nel cestino porta cucito... Aveva stanato da ogni possibile nascondiglio - come un cacciatore la selvaggina - quei modesti gioiellini d’oro che, portati per un tempo breve e subito dimenticati, erano rimasti poi, per anni, adagiati sopra un quadratino di ovatta rosa, di spugna bianca nelle loro piccole bare di cartone goffrato, di plastica leggera, chiusi nei loro sacchetti di camoscio, di velluto, di panno lenci. Ne aveva fatto un mucchietto, patetico, al centro del tavolo in cucina.
E quando il figlio, senza neanche guardarli, li aveva infilati alla rinfusa in una busta liberandola con un solo gesto di tutto quel modesto armamentario di abbellimento – di seduzione? – che ai suoi occhi non aveva più alcun fascino, lei si era sentita felice. Pervasa da una leggerezza gioiosa. Con quegli anelli, bracciali, orecchini, collane, medagliette, ciondoli…se ne andavano i ricordi che vi erano legati. Le emozioni che le avevano suscitato. Il fastidio anche - perché negarlo? - che le generavano ogni volta che qualcosa le capitava tra le mani. Il passato che racchiudevano, quel passato, era polvere. Ancora lì l’anellino dei suoi vent’anni, pegno d’amore del suo fidanzato d’allora, con doppio cuoricino d’oro giallo e rosa? Ancora lì la collana della laurea che non le era mai piaciuta e che aveva portato solo per fare contente le zie? Ancora lì il bracciale con il ciondolo a coccinella portafortuna, o la spilla con il suo nome che perdeva e ritrovava fino a che aveva deciso di non metterla più proprio per evitare le paure e i rimproveri che ne accompagnavano invariabilmente lo smarrimento? Che finte felicità. Che finte speranze. Quante delusioni in compenso. Via. Via tutte quelle gioie. Gioie? Dolori piuttosto. Povera bambina. C’erano voluti anni per capire. Ma ce l’aveva fatta. Quel passato le sembrava infinitamente lontano, irreale. Il figlio sarebbe andato da un “Compro oro”, uno di quei negozi sorti un po’ dappertutto in città, a venderlo, tenendosi il ricavato - questi erano i patti - per esiguo che fosse. A lei non importava. (Prima che il figlio infilasse la busta in tasca aggiunse anche l’anello matrimoniale che teneva nel cassetto della cucina – Che bisogno c’era di conservarlo? Era durata così poco quell’unione)
Bene. Il tavolo era sgombro. E già aveva voglia di dedicarsi con rinnovato slancio al “cartaceo”, come diceva tra sé in gergo burocratico, riferendosi a lettere, bigliettini, cartoline, pagine di diario, fogli sciolti che ingombravano lo studio. Cosa tenere? Cosa bruciare? L’unica scatola che avrebbe conservato, e per la quale non nutriva alcun dubbio, conteneva i fogli scarabocchiati del figlio, le sue prime parole scritte in uno stampatello incerto, in un corsivo infantile con piccoli disegni a margine di gatti, di camion, di macchinine, di rondelle. Una parte era già stata data alle fiamme: quaderni e fogli fittamente riempiti, pagine di giornali, riviste ingiallite, fotografie. Era stato bello vedere il fuoco, in giardino, sprigionarsi da quel mucchio di carta che si arricciava, si anneriva… riprendeva vigore per l’aggiunta di rami secchi raccolti nel prato, crepitava di nuovo, riduceva tutto in cenere. Da tempo non aveva più paura a frugare nel passato, a rimestare nei ricordi, lo faceva anzi con decisione, senza incertezze, lo sentiva necessario come il rovistare delle cicale nel fango prima di uscire dalle tenebre, da sottoterra, mettere bellissime ali, volare verso il sole.
in Gazzetta di Parma, 11 ottobre 2015