Oggi è Pasqua

 

Oggi è Pasqua

 

Angeli dove siete? State forse cercando i giacinti viola tra le foglie morte? Sotto ai rami piegati e tra i polloni dei tigli c’è un passaggio che porta al vialetto. Li troverete in quell’ombra pesante e umida. Io ci sono già stata. Questa mattina. Sbucavano timidi dal pacciame. Stenti. Ne ho colto di rosa e di viola da portare al sepolcro.

 

    Mentre cammino con il mio dono di fiori tra le mani sfioro i tulipani rossi ancora chiusi. Non più ordinati a fare bordura nelle aiuole, o a ridosso della siepe di bosso seccata da tempo. La ruspa ha sconvolto la geometria del giardino. E li ha dispersi. Ma alcuni ancora resistono e affiorano dal terreno argilloso compatto e duro, smarriti, con foglie e gambi polverosi e azzurri. E i calici venati di rosso. Con il tepore si apriranno. E i petali – gocce di sangue fresco a onorare il Cristo. Oggi risorto. È Pasqua.

    Nelle ombre che attraverso e dove il sole entra con luci saettanti come lame lascio cadere i giacinti. Perché tutte le ombre sono sepolcri vuoti. E freddi. E vanno onorati. Guardo verso la luce aperta. Calda e dorata. E il buio non è buio. E se rabbrividisco è perché ha preso a soffiare il vento giù dalle colline. Ma non tornerò a casa. (Chiusa la porta alle spalle, assalgono gli imperativi quotidiani del fare. Prepararsi il cibo. Il primo ordine. Nutrirsi. Come se si fosse vivi davvero.)

   In fretta raggiungo il filare delle magnolie. E cerco il mio posto attenta a non calpestare le rosette verde lucente delle orchidee purpuree, che cominciano a mettere la spiga. Sono tante quest’anno, spuntano disordinate in silenzi d’erba che si aprono intorno alla nicchia ricavata dai rami del pruno e delle amarene selvatiche intrecciati alle liane sinuose e vorticanti della vitalba. Adesso inondata di sole. È qui che volevo venire. Per scaldarmi in questo tepore amichevole. Mi siedo sulla mia solita pietra. Appoggio la testa alle ginocchia raccolte. E stare qui, in questa immobilità sognante, in questo verde scintillante e dolce, nell’oro chiaro delle foglie, è come stare in chiesa e pregare. Spogli di desideri. Di ambizioni. Di sogni. Di pensieri. Di parole. Ci si sente leggeri. Ci si ristora. E se guardo verso l’alto penso al Cristo che ha lasciato il sepolcro, è asceso al cielo nella luce sfolgorante. E d’improvviso la gioia si muta in tristezza. Mi sento sola. Anche lui se ne è andato. Anche lui, come tutti quelli che ho amato, lo devo cercare nel profondo cielo. I morti che ancora mi visitano. Mi chiamano. Mi guidano fino a loro. E io vado. E a volte li sorprendo vivi. E ciarlieri. Così intenti alle loro passate faccende terrene che nessuno di loro mi guarda. Nessuno fa mostra di accorgersi di me. Sono io a parlare per prima. A salutarli. A informarli. A raccontare quello che è successo dopo che se ne sono andati. E loro ascoltano. E annuiscono. Ma presto si allontanano. Senza dire niente. Come se già sapessero. Altre volte invece li trovo addormentati. Composti nei loro abiti. Mi avvicino in punta di piedi per non disturbarli. Voglio solo coricarmi al loro fianco.Dormire il loro sonno. Cari morti.

   La sofferenza si risveglia. E lacrime mi bagnano le guance. Qui dove sono nascosta nessuno sentirà i miei lamenti. Nessuno consolerà il mio pianto. Gli angeli vestiti di bianco sono al sepolcro per avvertire le donne e gli uomini che Cristo crocifisso è resuscitato dai morti. Qui non verranno. Solo il silenzio del cielo vasto e uniforme mi è di conforto. E il volo degli uccelli indaffarati. E i fruscii di zampette nelle foglie secche. Tra le cose buone metto gli ultimi giacinti che lascerò in questa nicchia. Perché da sempre la mia Pasqua profuma di loro. Anche allora erano rosa e viola e bianchi in vasetti di vetro intorno al corpo del Cristo deposto nella teca di vetro con gocce di sangue marrone dipinto sul gesso, e quella corona di spine, fitta come un nido. E il loro profumo mi stordiva. E il triangolo di stoffa viola che velava il crocifisso sull’altare m’inquietava. E la cantilena del rosario recitato dalle donne, impastata di saliva e triste, mi cullava. E i fazzoletti che tiravano fuori dalle tasche degli abiti neri e dalle maniche per asciugarsi gli occhi e la bocca. E io bambina che guardavo nella luce tremolante delle candele.

   Vorrei non pensare più a queste cose. Ascolto il mio respiro. Ancora sopravvivo. È un vecchio albero il mio corpo. Linfa di primavera è il sangue di oggi. E l’anima – Oh, l’anima! – è acqua e zucchero. E dappertutto il biancospino fiorito.

 

in Gazzetta di Parma, 31 marzo 2024