La pianta di uva turca

La pianta di uva turca

 

Il momento in cui potevano comparire i fantasmi è passato. La facciata della villa, solo poco prima velata dalle trasparenze delle foglie, sta entrando nell’ombra – fauci di drago silenzioso. Non un lamento. Una richiesta d’aiuto. Chiusa in se stessa, tace. Ho aspettato. Guardato. Teso l’orecchio. Ma non sono venuti. Nessuno di loro è uscito dal portone del salone, dalla porta della cucina o si è affacciato alla finestra, anche solo per chiudere le imposte spalancate dal vento (la zia lo faceva sempre a quest’ora del pomeriggio). Per oggi non verranno più. Forse domani.

E io sarò qui come adesso, seduta sulla seggiola nel prato davanti a casa ad aspettarli in questo tempo chiaro. Ma l’ombra s’allunga. Mi lambisce. Continuo a stare seduta. Non ho voglia di alzarmi, di spostarmi. Mi guado intorno. Il sipario del giardino è cambiato. È autunno. Ha altri colori. Ci sono diversi lavori che dovrei fare, rastrellare le foglie, per esempio, o tagliare i polloni ai piedi dei tigli (ma fanno bosco, per questo rimando), e il selvatico, cresciuto a dismisura nell’estate, così invadente, e che ho trascurato per il troppo caldo e le zanzare e tutti quegli insetti che riempivano l’aria, ronzavano, inseguivano, pungevano, non desistevano, infastidivano togliendo la voglia di lavorare. (E adesso sciami neri di formiche alate che volano nell’aria, ondeggianti, per accoppiarsi e riprodursi, e poi cadono a terra in macchie brulicanti di elitre argentate). Il corvo ha ripreso a gracchiare. Gli do proprio fastidio. Si fa più vicino, dal pioppo vola al tiglio. Ma non mi lascio intimorire. Non me ne vado. Voglio godermi questo sole tiepido d’ottobre. Voglio stare nel giallo luminoso delle foglie che muoiono. Respirare quest’aria colma di umori autunnali. Chiudo gli occhi per assaporare meglio ogni cosa. Ma subito li riapro al pensiero che il corvo potrebbe abbandonare il ramo, piombarmi addosso, e con quel suo becco lungo e robusto darmi colpi ripetuti ta-ta-ta-ta-ta martellanti e feroci, riempirmi di buchi come un tronco secco. Gesticolo disordinatamente, e batto le mani per scacciarlo. Non sembra intimorito. Continua a gracchiare, a intervalli. Nascosto in un folto di foglie, come un cecchino. Una farfalla nera si avvicina con un nervoso zig-zag, ma non si posa. La seguo con lo sguardo. E mi imbatto nell’uva turca. Nel suo gambo cremisi colpito dal sole. Alta, trionfa con il verde brillante delle foglie, i grappoli di bacche carnose color porpora tendenti al nero. È il suo momento. Benché infestante non la sradico mai. Mi rallegra questo arbusto selvatico, ornamentale, per quel colore rossastro del gambo, per i suoi rami succulenti lunghi e ricadenti, per le sue foglie ovali dall’apice appuntito e le nervature sul lato inferiore. Ogni bacca racchiude semi che gli uccelli mangiano ghiotti e trasportano ovunque, è per questo che ne spuntano in diversi angoli del giardino. Un esemplare magnifico, con un fusto vigoroso alto più di due metri, cresce vicino al noce, tra le ortiche. Lo intravedo anche da qui girando appena la testa.

   E mi viene alla mente l’uva turca che sporgeva dalla recinzione di un piccolo albergo scoperto per caso: la strada che percorrevo per andare al lavoro era interrotta, e la deviazione passava in quella zona periferica della città per me sconosciuta. Terminati i lavori e ripristinata la solita viabilità, avevo continuato a servirmene per terminare il racconto che la pianta mi aveva suggerito.    

   In quell’albergo anonimo e modesto facevo incontrare una coppia di amanti. La stanza che prenotavano era sempre la stessa perché alla donna piaceva, arrivando in anticipo, scostare le tende e distrarsi dall’attesa guardando il cespuglio dell’uva turca rosseggiare vistosa nella luce del tramonto. Ed era stato l’aspetto funereo e spettrale della pianta investita dal chiarore lattiginoso dei globi di luce del vialetto d’ingresso, che si erano accesi d’improvviso dopo un piovoso pomeriggio autunnale, a rivelarle che l’uomo che aspettava non sarebbe venuto. Non solo quel giorno. Non ci sarebbero stati altri incontri. Quell’amore era finito.

   Ho freddo. Trascino la seggiola fino a una macchia di sole. Di nuovo la sposto. Vado con lui. Finché mi trovo a fianco dell’uva turca. I grappoli hanno bacche nere, mature, altre porporine, altre ancora verdi, velenose.  Pochi minuti e qui sarà tutto buio, e lei silenziosa.  Mentre una luce color rame indugia morbida lassù in alto. Troppo in alto. E non dà risposta.

 

in Gazzetta di Parma, 15 ottobre2023