Still life a colazione
Still life a colazione
Non è solo la luce che le tocca. È anche il profumo inebriante dei tigli a legare le cose sul tavolo della cucina. La grande finestra è aperta sul cielo chiaro del mattino.
Non compio nessun gesto. Non dico nessuna parola. Non canticchio sottovoce, come spesso mi accade, frammenti di canzoni lontane spinte dai sogni sulla riva del risveglio. Seduta sulla sedia appoggiata al muro, al mio solito posto, respiro con voluttà quest’aria. Dove la sottile fragranza del caprifoglio, che con fiori bianchi e gialli si riversa a cascata dall’acero su cui si è arrampicato fino alla balaustra, si riscuote dal torpore al sole che lo scalda, e fluttua pigramente. Il mio sguardo le sorprende nella loro realtà di cose banali, quotidiane. Nella loro casualità. (Non sono in posa.) Nella loro solitudine. E in questo silenzio che le accoglie e le avvolge percepisco una loro vita autonoma. Un bisbigliare sommesso. Chiudo gli occhi. Non voglio si accorgano che le sto spiando. Non voglio interrompano il loro conversare. Non voglio insospettirle. Quando li riapro la loro immobilità toccata dalla luce, accarezzata dall’aria dolce che colma la stanza mi suscita, inatteso, il desiderio di entrare nella loro realtà di cose. Fare parte del loro mondo. Fondermi in loro per distrarmi da me stessa. Dimenticarmi. Scoprire altre verità. Nascoste. Forse osservandole a lungo. Allora lo faccio. Intensamente le guardo.
I petali caduti delle rose, con l’unghia bianca, ai piedi del vasetto di vetro che le contiene, e dove permane, circoscritto, un vago sentore della loro essenza, la trasparenza dell’acqua attraversata dai gambi, la tazza bianca appoggiata al piatto con decori blu, il cucchiaino a lato sulla tovaglietta gialla oltre il cui bordo sfrangiato stanno la zuccheriera, la caffettiera, le fette biscottate, il vasetto di marmellata, il piccolo vassoio ricolmo di penne matite pennarelli gomme, un paio di forbici. Cose familiari. Abituali. Anonime. Ma sono distratta. Questa mattina è diversa, e non è solo la luce, non è solo l’aria conturbante che entra, c’è qualcosa d’insolito rispetto alle altre mattine. Guardo con più attenzione. È il cestino ricolmo di amarene rosse con il lungo picciolo verde e le foglie ancora fresche, appena arricciate in punta, posto sul lato corto del tavolo contro il muro, che trasfigura. E sommuove. Decifrare il rosso dei piccoli frutti. Afferrarne il significato. Capirlo. Il rosso vivo lucido dei piccoli frutti dice qualcosa di più.
Già da ieri potevo insospettirmi. Quando verso sera ho attraversato il prato d’erba tagliata con il suo aroma esaltato dal secco e dal caldo, e le ombre lunghe delle piante che vi si stagliavano ferme, e ho varcato con baldanza i confini di quella scena metafisica per raggiungerlo sui rami piegati dolcemente verso terra sullo sfondo azzurro del cielo tra le foglie di vite selvatica, i cespugli dei pruni al limitare del campo, e impadronirmi di quel rosso che si donava non toccato dalla golosità degli uccelli perché aspro anche se maturo – e intorno i voli bassi dei merli e dei corvi sui campi incolti, e il gracchiare a intervalli, e il posarsi vigile sugli abeti seccati. E le zanzare che assalivano. Ma io andavo ugualmente nel sole calante a conquistarlo. Sì. Fin da ieri potevo saperlo.
E – davvero. Senza il cestino colmo di amarene – la solita banalità di questa tavola apparecchiata per la colazione del mattino. E il mio solito sguardo vacuo a seguire sul muro giallo sbiadito della villa di fronte alla finestra l’ombra porosa dei piccioni che zampettano sul tetto uno in fila all’altro, e becchettano meccanici tra i coppi. E lo zigzagare della piccola lucertola che insegue il sole. E i viticci grigi del glicine intorno alla grondaia. Mentre aspetto che la solita malinconia che mi assale al risveglio mi abbandoni e che l’abitudine a vivere prenda il sopravvento, e guidi la giornata.
Ma oggi le amarene dalla buccia rossa, dalla polpa brusca, così belle e vittoriose nella luce e nell’ombra qui sul tavolo, così vicine alla mia mano, hanno il colore e il sapore di giorni lontani. Sono gocce di un sangue passato. Di una vita che torna solo nel ricordo. Ecco. A questo penso. A questa verità che diventa amore. Sotto il mio sguardo.
(Ricordarsi «dopo», quando ci si riscuoterà dall’emozione di aver decifrato quel rosso, e quell’aspro che racchiude, ricordarsi di prendere le medicine, pastigliette rosa e bianche come confetti nuziali sul piattino, ma insipide, anche loro cose tra le cose.)
in Gazzetta di Parma, 20 agosto 2023