Congedarsi dall'inverno

Congedarsi dall’inverno

Questo giorno sarà mio. Solo mio. E io starò in lui come in un giardino protetto da un alto muro di pietra segnato dal muschio e dall’edera. Un beato «hortus conclusus». Coricata nel prato, le braccia aperte, ozierò guardando la luce del sole crescere nella sua gloria. Dalle radici. Fino al rosso tramonto della sera. La notte dormirò tranquilla e non avrò paura dei sogni. Dopo il buio ci sarà di nuovo la luce. E io la vedrò perché sarò viva. L’aria sarà profumata di verde tiepido e caldo, di terra umida, e un gatto con zampe di velluto si avvicinerà per salutarmi, si struscerà alle mie caviglie, io lo accarezzerò, sorridendo.

 

Questo giorno sarà mio. Solo mio. Non verrà nessuno. Tutti sono lontani. Dimenticato sopra il tavolo è il cellulare spento. Niente di estraneo voglio che irrompa in questo silenzio tenero e chiaro, brillante come  erba nuova. Nessuna voce. Nessuna sorpresa. Solo la mia voce. Solo i miei pensieri. Saranno loro a sorprendermi. Posso fare qualsiasi cosa mi verrà in mente. Non avrò orari. Paesaggio desolato è la cucina. Paesaggio desolato è lo studio. Nessun desiderio di scrivere. Di leggere. In questa luce opaca come uno specchio impolverato la mente ristagna, non ha grandi pensieri, si è presi solo dal desiderio di fuggire. Fuggire il sonno freddo delle stanze. Delle cose. Per la luce di fuori. Una bella luce, avvolgente, calda, morbida. Voglio quella luce, oggi. Indugio solo a prepararmi qualcosa da mangiare perché il momento della fame e della sete verrà e io non voglio al ritorno perdere tempo ad aprire e chiudere il frigorifero, a frugare nella dispensa in cerca di un cibo qualsiasi da trangugiare per tacitare le richieste fastidiose del corpo. Poi finalmente andrò a rannicchiarmi in un nido di foglie secche scaldate dal sole sotto le siepi. Insieme alle prime viole di primavera. Meravigliose sono quelle viole: le più belle e odorose, le più difficili da cogliere. Starò con loro. Fino a sentire nel sangue il tepore della nuova stagione. Poi continuerò per conto mio. E andrò lontano. All’altro capo del campo visiterò gli amareni e i pruni e gli abeti lambiti dal fuoco divampato tra le sterpaglie l’estate scorsa. Anneriti. Ammutoliti. Cogliere un verde timido di foglie, di piccole gemme sui loro rami scheletrici – sapere che respirano – sarebbe felicità. E al ritorno sotto al ciliegio controllerò il nido delle vespe scavatrici che ho sterminato quest’inverno. Con loro indaffarate e alacri, agguerrite e voraci, mi dicevo, non avrei potuto in alcun modo gustare i suoi frutti rossi, dolci, golosi. Non avrei osato avvicinarmi. La paura delle loro punture mi avrebbe tenuta lontana. Ma io volevo – voglio – quelle ciliegie. Gustarle come avevo sempre fatto. Andare sotto i suoi rami, afferrarne uno basso e tirarlo verso me e mangiarle, una dopo l’altra, in compagnia degli uccelli, che certo non si impauriscono alla vista della logora giacca infilata tra i rami più alti. Saziarmene. E ancora prima dei frutti volevo godere della sua fioritura, respirare il profumo dolce amaro dei suoi fiori, e aspettare poco lontano, sull’argine asciutto del canale, il vento che arriva al galoppo giù dalle colline come cavaliere cortese, così elegante nella sua armatura azzurro-acciaio-dorato da torneo, a scompigliare quelle delicate mussole bianche. Non volevo rinunciare a quella visione. A quella golosità. A quel ridere. Così in un giorno di gelo invernale ripensando a tutto il piacere che mi sarebbe stato negato, indossata per proteggermi la maschera per le api e infilati i guanti, con passi che scricchiolavano sotto le foglie gelate e l’erba di vetro, sono andata fino là, ho infilato il beccuccio del flacone e spruzzato il getto di schiuma velenosa nel nido sotterraneo. Poi sono corsa via, stupita del mio stesso coraggio. Da allora non ho più controllato. (Temevo la loro vendetta. Immaginavo, in maniera irrazionale, le vespe sopravvissute schierate come uno squadrone di morte, compatto, nero e giallo, circondato da quel brusio pericoloso e mortale, determinato a vendicarsi, a salvare a qualsiasi costo la regina, e pronto a trafiggermi al solo apparire. Fermare per sempre il mio cuore.)In questo giorno solo mio. Dopo aver attraversato ombre con sapore d’inverno, sostato nel calore dei cespugli, imparato dalla pazienza delle viole, andrò – è questo che voglio – dal ciliegio. Oggi ho di nuovo coraggio. Oggi ci sarà solo il mio pensare. Il mio silenzio. Il mio fare. Oggi reciterò le mie preghiere.

 

 

in Gazzetta di Parma, 9 aprile2023