la scrittura è una sirena

La scrittura è una sirena

 

Cerchi di resistere. Oggi non vuoi lavorare alla scrittura. La giornata è chiara e dolce. Invita ad altro. Ad uscire. Ci sono le amarene da raccogliere. Farne una composta per la colazione del mattino. Girare per il podere con il cestino infilato al braccio. Andare da un albero all’altro. Alcuni sono facili da raggiungere e da spogliare, altri emergono a stento dal selvatico. Quasi nascosti. Scampati alla vitalba dalle liane lunghe e pendenti come sartie ingentilite da fiori bianco-verdognoli e leggermente profumati (com’è lontano il tempo in cui se ne facevano coroncine da mettere in testa per adornarsi), ma sotto è un groviglio impenetrabile.

Un riparo buono per i fagiani. E le lepri. Muoversi in anfratti d’ombra e in zone di luce. Arrestarsi sorpresi. Dopo che l’erba è stata tagliata i prati e gli alberi visti da lontano creano un paesaggio nuovo, sconosciuto: scorci di un luogo mai visto prima d’ora. Ieri siamo rientrati in casa quasi subito perché l’aria era umida, pesante, minacciava di piovere, e le zanzare non davano tregua. Questa mattina invece c’è un vento fresco che rallegra. Si respira con facilità e piacere. Ci si sente vivi. Dunque andare. È stabilito.

Gettare un’occhiata al tavolo. Al computer spento. Al disordine delle carte. E accorgersi, nostro malgrado, di prestare ascolto a quella voce di sirena. Che ci chiama. Che è più forte di tutte le altre. Ma sì. Guardare solo la posta e le notizie locali, stabilire a priori di non andare oltre, e di uscire. Neanche ci si siede. Si accende il computer e in effetti dopo una lettura frettolosa delle e-mail e lo sfoglio distratto  del giornale si potrebbe spegnere e infilare la porta. Invece no. Perché, già che ci siamo, non appuntare nel file di ieri un’osservazione balenata mentre si faceva colazione o concretizzare, scrivendo, l’idea per quel nuovo racconto che potrebbe svanire nel giro di pochissimo? È questione di un attimo.  Seduti di sghimbescio sulla seggiola, non comodi per carità, si incomincia a battere sulla tastiera. Con impeto. E velocità. La scrittura fluisce facile. Dalla mente. Dal cuore. Un filo di ragno che tesse la sua tela. La traccia argentea lasciata da una lumaca sul muro. Anche se la pagina scritta è solo un abbozzo. È la parte più facile. Perché esista davvero bisogna lavorarci per giorni. Senza stancarsi. Stare sulle parole. Sulle frasi. Ingaggiare schermaglie a non finire con virgole, punti, parentesi, a capo. Sentire finalmente la frase scorrere senza impaccio. Altre volte invece dibattersi, invischiarsi sempre più. Tentare. Tentare ancora. Capovolgerla. Mettere la fine all’inizio. Invertire l’ordine delle parole. Applicare la proprietà commutativa dell’addizione – in un’addizione cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia – alla scrittura. Una mattina intera. Un pomeriggio intero. Un giorno intero. Pensarci anche la notte. Nel sonno. (Senza l’Io cosciente a vigilare, i neuroni troveranno la soluzione. Chissà.) Tornarci sopra subito, il mattino dopo. Anzi, dentro. Il cursore che punta dritto a quella frase, che si insinua in mezzo alle parole, e lì si arresta. Non va né su né giù. Attanagliato come una nave tra i ghiacci eterni.

Ma noi ne usciremo. Forza. Destrutturare la frase. Ricomporla. Spostarla. Cambiare aggettivi, anzi toglierli, inutile panna montata. Forse ci siamo riusciti. No. Ancora non va. Stordirsi di tentativi. Basta. Cancellarla. Togliersi da lì. Uscire fuori. No. Scappare non si può. È da vigliacchi. Concentrazione assoluta e totale non solo su “quella” frase. Ma su tutta la pagina. Su tutto il testo. Verificare la solidità della costruzione. L’originalità delle immagini per non cadere nel luogo comune sempre in agguato. Non sono solo parole. Sono le cose. Senza le parole non ci sarebbero le cose. A fine mattina (della passeggiata più nessuna traccia) concedersi una tregua. Tirarsi fuori da quell’incantamento. Da quello stordimento. Alzarsi dal tavolo. Abbandonare lo schermo del computer. Bianco abbagliante. Come la banchisa di ghiaccio su cui si è faticato per ore cercando di smuovere (e portare in salvo) la slitta-frase. La pagina-testo. Andare in cucina a rifocillarsi. Sorprendersi con lo sguardo perso oltre la tazza a mezz’aria, o la pentola dell’acqua che bolle nell’atto di buttare la pasta. In realtà si sta ancora lavorando. Franklin e le sue navi, la Terror e l’Erebus, e le sue slitte e i suoi uomini mai più tornati, inghiottiti dal gelo eterno e morti di fame. Qui, almeno, c’è speranza. «Mangia».

 

 in Gazzetta di Parma, 1 maggio 2022