Il gigaro, la calla selvatica
Il gigaro, la calla selvatica
Aveva sempre sradicato senza tanti riguardi il gigaro, la calla selvatica. Una pianta rustica e tenace, che si diffondeva a piacer suo, e cresceva bene dappertutto. Il suo rigoglioso esuberante cespuglio di foglie verdi trilobate, venate di bianco, dai margini lisci e leggermente ondulati, portate da un lungo picciolo, compariva spesso tra i rizomi della bergenia, traboccava festante dai vasi delle Hosta, si mostrava allegro lungo i bordi dello stradello, in mezzo ai fusti della bignonia, insomma, ovunque trovasse terreno umido e ombreggiato si insediava e prosperava senza bisogno di aiuto. Pur avendo tentato continuamente, mai era riuscita ad eliminarlo del tutto. E per fortuna, si diceva adesso che la sorte del giardino era mutata.
Verdeggiante e bellissimo in primavera, da marzo in avanti comparivano le sue infiorescenze (lo spadice) lunghe e gialle, belle ed eleganti coperte da fitti fiorellini bianchi, protette da una grande spata bianco-verdastra affusolata che le avvolgeva. E mosche mosconi moscerini vi giravano intorno, vi si annidavano attratti dall'odore, in verità poco gradevole di carne marcia, emesso dalle sostanze zuccherine del fiore e dal calore (anche dieci gradi sopra la temperatura ambientale che aiuta a diffondere l’odore) prodotti all'interno dalla spata. In questo caldo umido ci stavano dentro a meraviglia e fecondavano i fiori femminili con il polline che portavano. E quando lei si avvicinava volavano via con un brusio rabbioso e disordinato. In estate le foglie disseccavano, pendevano leggere come garze sporche di terra dal vaso o giacevano in mucchietti inariditi e malinconici sul terreno, quello era allora il momento in cui il gigaro mostrava una misteriosa pannocchia di vistose bacche rosso-arancio tossiche per l’uomo, ma non per gli uccelli e anche, secondo una vecchia credenza, alimento preferito dei serpenti, da qui l'appellativo di "pan di serpe" o “pan biscia”, che da esse ricaverebbero il mortale veleno. Questa credenza così fiabesca, era certo senza fondamento, pensava. Suo malgrado però, si era accorta di non tuffare più con spavalderia le mani nude nel mucchio fitto delle foglie ancora verdi per arrivare ai gambi, afferrarli, cercare di sradicare il rizoma sotterraneo, robusto e profondo. E al comparire delle pannocchie, già da lontano lo scrutava attentamente e avvicinandosi strusciava i piedi nell’erba secca o sul ghiaietto per fare rumore, o percuoteva il terreno con un bastoncino per avvertire la biscia del suo arrivo in caso si fosse addormentata ben pasciuta e sazia di quei frutti, e costringerla ad andarsene da qualche altra parte. Perché intorno a casa le bisce c’erano.
Pandus, il suo gatto, aveva sostenuto una dura lotta lungo il filare delle magnolie (dove andava a stendere il bucato) con un biacco (un serpente lungo e nero non velenoso, grazie a Dio) prima di mozzargli la testa con le sue fauci di piccola tigre. (Poi, vittorioso, gli si era coricato a fianco apparentemente svagato, guardava infatti in un’altra direzione pur continuando a battere con forza la coda sul terreno, che conservava nelle foglie tritate e nell’erba pestata i segni del combattimento avvenuto, ma fulmineo e feroce nell’immobilizzare con la zampa quel lungo corpo acefalo a ogni suo involontario sussulto.)
Del gigaro, la formula fiorale, che racconta come il fiore è composto e organizzato e definisce in modo schematico la composizione di un fiore nei suoi vari componenti (sepali, petali, carpelli, stami) era P3 +3, A3+3, G3. Questa specie di formula chimica, che utilizzava sigle e numeri, la ricordava con facilità forse perché (a differenza, per esempio di quella della camomilla o della rosa canina) era davvero semplice: il numero tre si ripeteva liscio, senza asperità, simile a un motivetto surreale che canticchiava in suo onore quando lo incontrava.
Dopo le ruspe, che avevano cancellato l’antico splendore del giardino, ecco che il gigaro (Arum italicum il nome scientifico dato da Linneo a questa piccola pianta erbacea, che da alcuni anni stava interessando i garden designer come pianta ornamentale per i luoghi semi ombreggiati o in piena d’ombra) era il benvenuto. Si diffondesse pure dove gli pareva, attirasse moscerini impollinatori e bisce e uccelli, lei non l’avrebbe più sradicato. Anzi, gli era persino grata per quel dono di bellezza e vitalità nel terreno sconvolto. Crescesse dove voleva. Persino qui, persino in questa aiuola di ranuncoli gialli, poco lontano dalla soglia di casa.
in Gazzetta di Parma, 23 giugno 2024