Bruciare il bosso
Bruciare il bosso
Adesso toccava al bosso. Fino a quel momento l’aveva risparmiato bruciando, per avviare bene il fuoco, tondini ricavati dai rami del faggio e del noce abbattuti in estate. Purtroppo erano finiti: doveva servirsi del bosso.
Morto da anni, divorato dalle larve delle piralidi, quando ancora le capitava di estrarre un ramo che sporgeva dal terreno o di liberarlo dai tenaci viluppi dell’edera, non poteva fare a meno di ricordare il suo fresco respiro. La siepe magnifica che era stato. Gonfia di verde semprevivo. Che a sud cingeva il giardino della villa, e a nord la separava dal parco. E la neve che in inverno la ricopriva. E la piegava. E la trasformava in una fiaba incantata. E in primavera i germogli verde chiaro sopra la fascia scura delle foglie, che si allungavano teneri. E anche dopo che il tuttofare era passato a pareggiarla con le forbici affilate, parte dei nuovi rami restava. E la siepe cresceva. Sotto gli arbusti di nocciolo, in un angolo ombroso che quasi sempre sfuggiva alla solerzia delle cesoie, e dove lei andava con il cestino a raccogliere le nocciole ancora avvolte nell’involucro frastagliato, che quel fitto intrico di piccoli rami e foglie tratteneva, o che scivolavano fino a terra e si mischiavano ai gusci delle chiocciole, grandi e piccoli, bianchi o avvolti a spirale marrone scuro e chiaro, come conchiglie spinte sulla spiaggia da un mare sconosciuto, ecco, in quell’angolo la siepe le superava le spalle. Poi la voracità inarrestabile e distruttiva delle piralidi. E l’ascoltare per giorni quel suo lungo grido d’addio. Che sofferenza era stata. Poi gli escavatori e le livellatrici per ricavare dal giardino un parcheggio. E uomini a segare i tronchi duri e inerti che ancora spuntavano dal terreno.
In quel paesaggio sconvolto – di domenica le macchine abbandonate sotto gli olmi apparivano come grossi insetti dalle elitre gialle e arancioni – lei si aggirava trascinando la carriola. E perlustrava palmo a palmo quel campo di battaglia. E raccoglieva le ossa pallide del bosso. Reliquie. Non riusciva a fingere indifferenza, a lasciarle affiorare e marcire in mezzo alla devastazione di piante, di terra, di pietre. Per anni gli era vissuta accanto. Per anni aveva ascoltato la sua voce. Per anni l’aveva amato. E dove il terreno era troppo irregolare per andare con la carriola, andava con il secchio; e lo riempiva di quei frammenti che, anche se confusi con altri legni, lei riconosceva subito: di un giallo scolorito, segnato da un reticolo di piccole scaglie verdi, o macchiato di muffa bianca leggera come un velo da sposa.(Dopo giorni di pioggia, malgrado il fastidio delle zanzare, aveva continuato a girare attorno con gli stivali senza tralasciare la minutaglia infangata con cui colmava la carriola che poi, trascinata fino alla porta della legnaia, rovesciava al sole perché asciugasse. E si facesse esca.)
Anche sottili e fragili monconi, e tozze parti di tronco con scanalature profonde nella corteccia, estraeva. (Dietro un muretto di mattoni, che l’aveva nascosto, le era apparso, intatto nella sua chioma scheletrita, nella sua impalcatura di rami e rametti, un cespuglio solitario. Con precauzione era riuscita a tirarlo fuori senza romperlo. Intatte anche le radici. Portato a casa e infilato in un grande vaso, quel suo pallore grigio e inanimato tra le piante vive e i fiori della serra appariva strano, incongruo…rimandava alla trama calcarea della barriera corallina sbiancata e morta per un oceano troppo caldo.)
E nascevano momenti di stupore e di gioia quando incontrava tra le zolle rivoltate rami pungenti di rose che ondeggiavano smarriti nell’aria; e una specie di euforia segreta, quasi religiosa, quando il sole del tramonto, che cadeva per caso sulle sue mani colme di quei rimasugli, li rivestiva all’improvviso di una luce dorata, sacra, e allora sapeva che quel fare era giusto, e che aveva ragione di farlo.
Adesso era venuto il suo tempo. Portò il cesto accanto alla stufa. Dopo averla pulita, la caricò con carta e legna minuta. Prese una manciata di quei pezzetti disseccati. Ma ancora non si decideva a ridurli in cenere. Ancora ascoltava il richiamo struggente che si sprigionava da loro, e quella lontana visione di vita – il verde profondo del fogliame, la sua felicità soddisfatta – si ripresentava.
«Addio caro bosso, non resterà più niente di te, solo il mio ricordo, il mio amore. A te il mio cuore» disse senza voce. La fiamma divampò. La legna prese fuoco crepitando. (Le radici sono state le ultime.)
in Gazzetta di Parma, 18 febbraio 2024