Le nove del mattino e la neve che scende

Le nove del mattino e la neve che scende

 

Nevicava. Una luce morbida entrava dalla finestra e illuminava la stanza con un debole chiarore. Così intima e discreta che non infastidiva per niente. Perché non approfittarne? Tanto più che la stufa – una di quelle grandi stufe tirolesi in maiolica fatta installare al momento del restauro della casa, quasi più per capriccio che per un utilizzo vero e proprio – era ancora tiepida, e c’erano braci sotto la cenere.

Bastava aggiungere legna minuta, tondini ben secchi e stagionati perché una bella fiamma divampasse e il fuoco senza fatica riprendesse vigore. Mentre la fiamma si alzava i gatti, che la sapevano lunga, si erano già comodamente sistemati, chi sotto tra la legna, chi sopra lungo e disteso per godersi il tepore, e ben intenzionati, sembrava, a non muoversi da lì per tutto il giorno.

Spense il telefono. Cercò gli occhiali. I libri erano sul tavolo, a portata di mano. Che bellezza. Nell’atto di sedersi, si guardò intorno. Davvero poteva farlo? Davvero poteva stare in quel silenzio tiepido e ovattato e leggere in completa beatitudine? Davvero poteva guardare la neve che cadeva senza che nessuno, proprio nessuno la rimproverasse? Le dicesse di non oziare, di alzarsi da lì, di organizzare le attività quotidiane: non vedeva che c’era ancora tutto da fare e la mattina era già avanti e il mezzogiorno incombeva?  Possibile che le voci della madre, della suora, della suocera, della capoufficio mai spente in lei, non la raggiungessero irate prima ancora che il loro passo di marcia, in avvicinamento, non la facesse sobbalzare guardandosi in giro spaurita, braccata come avesse commesso chissà quale imperdonabile infrazione, con il libro chiuso in tutta fretta, ma ancora tra le mani come prova inconfutabile della sua colpevolezza? Possibile che quei lavori (in casa e in ufficio) mortalmente noiosi non ci fossero più a gravarle addosso come pietra, a reprimere ogni suo slancio verso una promessa di felicità? Certe volte, al lavoro, quando incominciava a nevicare, le veniva quasi da piangere per tutto quello spreco di meravigliosa bellezza, e si vietava di guardare verso la finestra per timore di non riuscire a governare  il desiderio che l’assaliva, tanto lo sentiva urgente e incontrollabile, di uscire, andare incontro alle falde di neve come a un sogno, di ridere quando le cadevano sul viso profumate d’aria fredda, di lasciare per le strade, che incominciavano a imbiancare, orme leggere come di uccello.

Di nuovo rivolse lo sguardo intorno. Toccate da quella luce grigia le cose della stanza apparivano miti, quiete, raccolte nei loro colori sbiaditi, del tutto disinteressate a lei.

Si sedette. Spiegò il plaid sopra le gambe, prese dal tavolo un libro senza neppure sceglierlo perché in quel momento non era importante “quale” libro avrebbe letto, l’importante era farlo – leggere – tralasciando tutto il resto. Erano le nove del mattino. La neve continuava a cadere. E lei pensò che quella era una delle più belle mattine che si trovasse a vivere.

 

in Gazzetta di Parma, domenica 21 febbraio 2021