Stare nella luce

Stare nella luce

 

La “rouelle” era quello spazio tra il letto e il muro della “camera azzurra” (un rifugio dove tutto dell’arredamento: tappezzerie, tende, decorazioni delle pareti erano rigorosamente azzurre) che  Madame de Rambouillet (Catherine de Vivonne marchesa de Rambouillet) aveva creato e dove riceveva “per dimenticare la crudezza della vita reale” e dove si respirava un’aria di leggerezza, di spensieratezza, d’indipendenza dalle passioni.

Questa dunque la “rouelle”. Tanto le piaceva quest’immagine, che si era messa a chiamare “rouelle” quella striscia di prato racchiusa tra il filare compatto delle magnolie e i cespugli disordinati delle rose. E dimostrava la sua predilezione per quel luogo tenendolo costantemente ordinato: toglieva sterpi e fuscelli, rastrellava le foglie secche, tagliava i germogli delle amarene e dei pruni selvatici che spuntavano con velocità sorprendente. In quella sua personale “rouelle” si stava bene: era primavera, non c’erano zanzare a infastidire e la calura dell’estate era ancora lontana. Nei giorni di bel tempo, al pomeriggio quando era illuminata dal sole, vi portava la sedia di plastica, appoggiava i piedi alla vecchia arnia vuota e malridotta. Avvertiva subito un gradito senso di protezione. Chiudeva gli occhi. E stava in quel tepore vegetale come un piccolo animale timido e inoffensivo che uscito dalla tana dopo l’inverno godeva della luce del sole, del suo calore, della sua bontà. Pura vita animale era infatti quella che sentiva fluire nel suo corpo coperto dal maglione di lana e da un paio di pantaloni altrettanto caldi e confortevoli. Non aveva bisogno di guardare perché conosceva con precisione tutto quanto la circondava. Gli olmi, per esempio, grandi e maestosi c’erano già quando era venuta ad abitare in quel posto, altri erano attecchiti da soli, e lei li aveva lasciati crescere ovunque. Poco più in là, c’era la buca del compost circondata da cespugli di noccioli. La casa-tana era alle sue spalle, rassicurante. Il cancello che portava alla proprietà ben chiuso, nessuno sarebbe comparso all’improvviso a impaurirla, a ricondurla bruscamente al tempo reale. All’oggi. Così fragile. Arrivava il rumore dei camion, i soli che potevano circolare in quei giorni chiusi; l’eco di voci al di là della recinzione, e di una musica che per quanto allegra sembrava appartenere a un mondo lontano. Irrimediabilmente lontano. Che mai più sarebbe tornato. Il vento di primavera correva alto, portava profumi e petali e polline e la faceva sorridere quando scendeva giù fino a lei e la strapazzava con ruvide carezze. Il sole piano piano se ne andava. Lei lo seguiva spostando la sedia sempre un po’ più in là. Un po’ più in là. Finché, d’improvviso, la “rouelle” cadeva nell’ombra. Il sole era sparito dietro le case del quartiere. E per quel giorno non sarebbe più tornato a illuminarla. Allora si alzava. Tornava verso casa. Quasi di corsa. Non voleva farsi toccare da quell’ombra. Voleva stare solamente nella luce.

 

 in Gazzetta di Parma, 12 aprile 2020