Il cerchio di ferro e la scala celeste

Il cerchio di ferro e la scala celeste

 

Era tutta la mattina che lavorava in giardino. Il sole era caldo, l’aria tersa, si stava bene. Comunque aveva deciso di smettere, incominciava ad essere stanca e c’era il pranzo da preparare. Nel ritornare verso casa passò vicino alle arnie abbandonate i cui tettucci zincati, luccicanti come specchi per il sole che li colpiva, le erano parsi, da lontano, come un richiamo.

Arrivata a quegli strani specchi aveva appoggiato le mani sulla lamiera più vicina per scaldarle. E sollevato poi, senza una ragione, la cortina di rami spinosi di un esuberante ciliegio-susino che le si riversava a fianco come una cascata. Come già sapeva, lì sotto non si palesò nient’altro che il solito ammasso di attrezzi agricoli abbandonati da anni. Si potevano ancora distinguere l’erpice, l’estirpatore, il carro del fieno, la botte del verderame con sbiadite striature azzurre sulle doghe sfondate, il rullo spianatore, le gabbie dei conigli…, ma tutto, in quel un mucchio di ferri vecchi, era inservibile e sfasciato, marcio o arrugginito. E l’edera che in gran parte li ricopriva – vittoriosa, lei sì, contro il tempo – suggeriva una resa senza ritorno. Un cerchione di ferro del carro non sembrava difficile da sfilare. Infatti lo liberò senza molta fatica dalla terra dov’era sprofondato. Era pesante e bello nella sua essenzialità di cerchio. Perché abbandonarlo? Facendolo ruotare piano piano riuscì ad appoggiarlo al tronco di un pioppo poco lontano. Con altrettanta facilità ne estrasse un secondo. E allo stesso modo lo condusse al pioppo dove lo lasciò cadere pesantemente sopra l’altro. Per la forza dell’urto i cerchioni si incastrarono uno nell’altro suggerendo un abbozzo di sfera armillare. Benché la sua conoscenza riguardo a tale oggetto non andasse più in là del ricordo di uno strumento astronomico che rappresentava il movimento degli astri sopra la terra (le armille erano appunto i cerchi metallici che rappresentano meridiani e paralleli celesti) l’idea le piacque. Tornò al carro ma gli altri due cerchioni affondavano così tanto nel terreno che per tirarli fuori occorreva l’aiuto del figlio.  Mentre li ripuliva dall’edera e dalla terra notò una lunga scala di ferro appoggiata dietro al pioppo. Un richiamo irresistibile. Dopo averne saggiato la stabilità la salì fino all’ultimo piolo. Aggrappata ai rami si sporse in fuori a guardare l’albero in tutta la sua vertiginosa verticalità. In alto, verso la cima, due scuri nidi di gazze. E un rumore d’acqua per il vento che correva alto. Provò una specie di ebbrezza così staccata da terra. Così vicina a quel cielo di primavera, chiaro, di straziante bellezza. Il pensiero del pranzo si affacciò di nuovo. Doveva affrettarsi, era tardi. Prese a scendere di malavoglia, un piolo dopo l’altro. All’ultimo si fermò. Guardò verso l’alto. Un’altra dimensione. Sconfinata.              

L’avventura di un altro spazio, quello celeste, per niente equivalente alla terra la chiamava. Perché tornare?  

 

in Gazzetta di Parma, 7 aprile 2019