Zampe di gallina
Zampe di gallina
“Gusti da contadini” non si tratteneva dal dire la madre, sarta, ogni volta che entrando in cucina li sorprendeva vicino alla stufa: lei, con il piatto in mano, in attesa che il padre, intento a rimestare con la schiumarola nella grande pentola dove sobbolliva con sedano carota e cipolla la gallina della festa, le servisse la prima zampa che tirava su da quel brodo profumato e grasso.
Mentre la spruzzava di sale e ne gustava ancora bollente la pelle che si staccava morbida dall’osso, i tendini elastici, gli ossicini, lasciati per ultimi, dalla consistenza gelatinosa e tenuti lungamente in bocca, lui si dedicava, con rinnovato impegno, alla pesca dell’altra zampa rituffando la schiumarola nel brodo. Quella prelibatezza, di cui lei e il padre erano ghiotti, finiva sempre troppo in fretta. Un vero peccato, si rammaricavano l’un l’altro, che le galline avessero solo due zampe. Eh, sì. I tempi in cui le zampe di gallina potevano essere comprate dal macellaio, o al supermercato a vaschette intere, già pulite e pronte per essere cucinate, erano ancora da venire. E anche il sapere che in Cina si vendevano ad ogni angolo di strada, si mangiavano passeggiando, venivano portate in viaggio, sia in auto, che in treno, che in bus… , si sgranocchiavano al cinema come pop corn, che, marinate prima in una salsa di aceto e vino bianco e di riso, peperoncino, zucchero e sale, e poi cotte al vapore - fèngzhuā - erano tra le golosità più apprezzate della cucina cinese,per loro,che vivevano in un paesino della Val Trebbia, questo era molto, molto lontano dal sapersi.Ma che zampe erano mai quelle! Grandi, sode, carnose. Di gallina ruspante. Comprata direttamente dai contadini in occasione delle feste. Con grande fastidio della madre che doveva spiumarla, sventrarla, lavarla, fiammeggiarla sul gas per togliere la sottile peluria che restava sulla pelle.E qui entravano in scena anche loro, le zampe, appunto, che con le unghie già tagliate venivano rosolate per bene in modo che una volta tolte dalla fiamma, quella pelle bruciacchiata si sfilasse alla pressione della mano come un paio di guanti, scoprendole nude, pallide, quasi delicate.Assaporate dunque le zampe, con incontrollata golosità da parte sua, con studiata lentezza da parte del padre, era la volta del magone. A lei il magone (o ventriglio che, con suo stupore, svelava sempre all’apertura pietruzze nere tra il mangime giallo) non piaceva molto: il sapore “strano” che sentiva non era neppure paragonabile a quello delle zampe. E quando dopo diversi tentativi veniva finalmente “catturato” e deposto nel piatto scuro e raggrinzito “come una reliquia “ (così si esprimeva il padre) lei ben volentieri avrebbe fatto a meno della sua metà che invece le veniva offerta, infilzata e salata, nei rebbi della forchetta, come un dono. Con il recupero delle verdure sempre un po’ unte seppur scolate dal brodo, e condite con olio aceto e sale, e mangiate con un pezzetto di pane, terminava quel loro esclusivo banchetto. Un’occhiata complice, ed eccoli lasciare con finta indifferenza la cucina mentre la madre si affrettava - finalmente! - a controllare il bollore del brodo, a rimettere il coperchio sulla pentola, a ravvivare il fuoco borbottando un conclusivo e irrimediabile: “Dei contadini … Dei contadini”. L’agnizione avvenne sulla soglia di casa. Tornata dall’orto (era così orgogliosa del suo orto) di fretta e accaldata, si sorprese riflessa nel vetro della porta mentre cercava, il cesto delle verdure per terra, di rimettere a posto il fazzoletto scivolato sulla fronte. Una contadina. Sì. Non c’erano dubbi al riguardo: una contadina che anni di studio e di letture non avevano affatto cancellato: nel profondo del cuore lei era una contadina. La madre non si era sbagliata. Almeno per quanto la riguardava, aveva visto giusto. A lei era occorsa una vita per capirlo.
in Gazzetta di Parma, 24 luglio 2016